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Le aziende investono più della politica nella gestione della crisi climatica: cosa ci racconta il nuovo report MSCI


Nell’ultima edizione del Net-Zero Tracker, il fornitore di dati di investimento e ricerca statunitense ha valutato i progressi in materia di cambiamenti climatici delle aziende e ha incluso i dati del suo parametro “Implied Temperature Rise”, su temi chiave tra cui emissioni di gas serra (GHG), obiettivi aziendali, informativa, flussi finanziari, transizione energetica, rischio fisico e natura

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Nonostante le tensioni geopolitiche, gli ostacoli normativi e l’andamento altalenante delle agende politiche in materia ambientale, il settore privato continua a fare progressi concreti nella lotta alla crisi climatica. Lo racconta il nuovo rapporto pubblicato da MSCI, fornitore di dati di investimento e ricerca statunitense, che nel suo ultimo Transition Finance Tracker ci racconta una transizione energetica che, nel mondo delle imprese, va avanti – e, in alcuni casi, accelera.

Il quadro che emerge è quello di un settore economico che, almeno sulla carta, intende prendere sempre più sul serio la necessità di ridurre le proprie emissioni climalteranti.

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Secondo il report, infatti, a marzo 2025, il 60,1% delle aziende globali quotate in borsa ha pubblicato impegni climatici. La percentuale è stabile rispetto al 2024, ma è più che raddoppiata rispetto a cinque anni fa, quando si fermava al 28%. Non si tratta solo di promesse: cresce anche il numero di aziende con obiettivi climatici scientificamente convalidati, quelli cioè riconosciuti dalla Science Based Targets initiative (SBTi). Dal 9,3% del 2024 si è passati al 14,2% nel 2025: un aumento del 50% in soli dodici mesi.

Secondo MSCI, l’ambizione climatica sta aumentando anche nei settori storicamente più complicati. In cima alla classifica troviamo il settore industriale, con il 21,5% delle aziende che hanno ricevuto la validazione dei loro target. Seguono i beni di consumo discrezionali (15,5%) e il settore informatico (13,9%). Fanalino di coda sono i servizi pubblici, che si fermano al 3%, e il comparto energetico, ancora allo 0%: la SBTi, infatti, non approva più obiettivi climatici presentati da compagnie petrolifere e del gas.

Uno degli elementi più interessanti del report riguarda il cosiddetto disaccoppiamento tra crescita economica ed emissioni. Tra il 2015 e il 2023, nei Paesi sviluppati i ricavi delle aziende sono cresciuti del 49%, mentre le loro emissioni sono diminuite del 25%. Un segnale che dimostra come una transizione verso modelli produttivi più sostenibili sia non solo possibile, ma già in atto. Nei mercati emergenti, invece, il processo è più lento: le emissioni e i ricavi sono aumentati insieme fino al 2020, ma nel 2023 si è registrata per la prima volta una decrescita delle emissioni a fronte di ricavi ancora in salita.

Italia: in cammino, ma ancora lontana dai target

Ma dove si colloca l’Italia in questo scenario globale? Le aziende italiane quotate hanno prodotto circa 84 milioni di tonnellate di CO₂ (Scope 1) nel 2023. Un dato che le pone in una posizione intermedia rispetto ai partner europei: meno della Germania (124 MtCO₂e) e della Francia (99 MtCO₂e), ma più del Regno Unito (72 MtCO₂e).

Sul fronte degli impegni climatici, però, le aziende italiane mostrano ancora un ritardo rispetto ai Paesi più virtuosi. Secondo il modello “Implied Temperature Rise” di MSCI, che stima il grado di riscaldamento implicito delle strategie aziendali, le aziende italiane risultano associate a un riscaldamento futuro superiore a 2,3°C. Un valore che le colloca al pari della Francia (2,3°C) e sopra della Germania (2°C), ma comunque sotto la media globale (2,7°C) e molto distanti dalla soglia di sicurezza dei 1,5°C fissata dall’Accordo di Parigi.

Non mancano però segnali incoraggianti: in Italia cresce la trasparenza climatica, anche grazie alla spinta normativa europea. Le aziende si preparano infatti a rispettare le nuove direttive sulla rendicontazione di sostenibilità (CSRD), che impongono la pubblicazione dei dati ambientali, sociali e di governance per un numero sempre più ampio di imprese. E anche sul fronte pubblico si registrano passi avanti: il governo italiano è tra quelli che hanno emesso green bond, strumenti finanziari destinati a finanziare progetti a impatto ambientale positivo, contribuendo a un mercato globale che ha raggiunto i 243 miliardi di dollari alla fine del 2024.

Il caso Eni e i crediti di carbonio

Una nota a parte merita il tema dei crediti di carbonio. Il rapporto MSCI segnala che l’italiana Eni è tra le aziende che più hanno fatto ricorso a questi strumenti nel primo trimestre del 2025, piazzandosi tra i principali utilizzatori al mondo. I crediti di carbonio, lo ricordiamo, sono certificati che attestano l’avvenuta compensazione di una certa quantità di emissioni di CO₂, solitamente attraverso investimenti in progetti di riforestazione o energie rinnovabili. Il loro utilizzo può rappresentare un’opportunità per colmare il gap tra le emissioni attuali e gli obiettivi climatici, ma da solo non basta: deve essere accompagnato da strategie di riduzione reale delle emissioni e non trasformarsi in un semplice alibi per mantenerle.

Ad oggi, secondo il report solo il 12% delle aziende nel mondo è attualmente in linea con un percorso compatibile con l’1,5°C. È un dato che dovrebbe far riflettere: la transizione climatica è iniziata, ma il ritmo è ancora troppo lento per garantire un futuro, e un presente, sostenibile.

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