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Sistema precario: l’unico record è di lavoratori poveri


Oggi ci sono cinque ragioni in più per trasformare un Primo Maggio che tende ad essere presentato come un rituale, per di più luttuoso, in una giornata di lotta contro lo sfruttamento e per una cittadinanza sociale. Sono i cinque quesiti del referendum che si voteranno l’8 e il 9 giugno e possono cambiare la vita di milioni di persone.

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SI VOTERÀ per abolire i licenziamenti senza giusta causa creati dal Jobs Act del Pd di Renzi; stabilire risarcimenti più equi per i licenziati senza motivo che lavorano per le piccole aziende con meno di 16 dipendenti; imporre la responsabilità legale alle aziende che indicono un appalto, e non solo a quelle che lavorano in subappalto, in caso di morte o infortunio sul lavoro; riconoscere la cittadinanza a chi lavora e studia in Italia con un requisito minimo di 5 anni di residenza e non più 10.

LA CHIAVE per leggere questa giornata politica, e riattivare la sua carica di opposizione al lavoro capitalistico, è stata data dal segretario della Cgil Maurizio Landini, ed è stata usata anche da molti altri soggetti della sinistra, come la Casa Internazionale delle Donne che ha evidenziato come quelli dei referendum «non sono quesiti astratti e riguardano direttamente le donne: noi che viviamo in condizioni lavorative troppo spesso segnate da precarietà, licenziamenti legati alla maternità, contratti poveri e mancanza di tutela».

UNA RIVOLTA OGGI, potrebbe anche passare da un voto. A questo orizzonte, si direbbe alla Albert Camus più volte richiamato in questi mesi da Landini, rinvia lo slogan scelto dalla Cgil per la campagna referendaria: «Il voto è la nostra rivolta». Il messaggio è stato concepito per mobilitare in vista di un voto politicamente rilevante che sconta l’incertezza per la tagliola del quorum, ma può essere inteso come l’occasione di una mobilitazione trasversale. Dopo avere rilanciato il concetto in un appello pubblicato da Il Manifesto, e da altri quotidiani, ieri alle Industrie Fluviali a Roma Landini lo ha ribadito presentando una ricerca strutturata e informata della Fondazione Di Vittorio: «Precarietà e bassi salari. Rapporto sul lavoro in Italia a dieci anni dal Jobs Act».

LANDINI ha criticato l’annuncio del governo su un nuovo provvedimento-bandiera sulla sicurezza sul lavoro: «Siamo di fronte a veri omicidi e non fatalità. È un modello di fare impresa e mercato che uccide, ed è stato favorito dalla politica e dal parlamento con le leggi – ha detto – Con il governo è un anno e mezzo che chiediamo di modificare le leggi e invece si è andati nella direzione opposta. Se si vuole davvero cambiare la situazione è necessario cambiare le leggi, e non costa nulla. Devono essere responsabili quelli che pensano che le persone possono morire come un prezzo da pagare in nome del profitto e del mercato. Non è il momento delle chiacchiere o degli annunci, ma dei fatti».

LA RICERCA della Fondazione Di Vittorio è utile, in primo luogo, per comprendere il significato del boom del lavoro: il «milione di posti di lavoro» tanto propagandato dal governo Meloni. «Nasconde gravi fragilità – si legge – Non è il risultato di un aumento dei nuovi contratti di assunzione, che sono diminuiti di 120 mila unità tra il 2022 e il 2024. La crescita è dovuta in prevalenza alle trasformazioni dei contratti a termine attivati nel dopo-pandemia e al calo nelle cessazioni dei contratti esistenti, visto il contesto di politiche di sostegno della domanda con il Pnrr o il bonus edilizio».

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NON DI NUOVA OCCUPAZIONE si tratterebbe allora, ma di trasformazione dei contratti già esistenti. A questo, dunque, è servito il Jobs Act. La sua coda lunga oggi, primo Maggio, permette a Meloni di dire di avere fatto molto per il «lavoro». E tuttavia, un’analisi non ingenuamente quantitativa come quella del rapporto, dimostra che il record è debole: non c’è stata una parallela espansione del numero di ore lavorate, dato l’aumento dei lavori part-time. I nuovi impieghi sono nei servizi a bassa qualificazione dove i salari sono modesti. E, soprattutto, non è stato bloccato il motore del Jobs Act: la liberalizzazione dei contratti a termini e l’ampliamento del lavoro accessorio, i due strumenti che rendono meno costoso il lavoro e permettono ai governi di parlare di «successi» sulle spalle dei lavoratori.

IL SISTEMA CONTRO il quale iniziare a fare un primo passo con un voto al referendum è descritto in maniera analitica e severa. Il rapporto spiega infatti che, negli ultimi 10 anni, si è attivato un «circolo vizioso» tra nassa innovazione e scarsi investimenti e alta precarietà, bassi salari e scarsa produttività. La scelta è stata politica: si chiama «svalutazione interna». Ha fatto pagare ai lavoratori e ai precari il costo della mancata innovazione delle imprese, e di un Welfare iniquo. Tra il 2008 e il 2024 i salari reali medi sono diminuiti del 9% mentre in Germania e in Francia sono aumentati del 14% e del 15%. Oggi i contratti a termine e part time riguardano il 30% degli occupati. La precarietà è strutturale. La notizia potrebbe essere un’altra: a un certo punto più di qualcuno dice «Basta».



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