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Startup, in Italia solo il 7% ce la fa: perché può essere utile investire (subito) in impianti e macchinari


di
Matteo Cristofaro, Ivo Hristov e Riccardo Cimini*

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Allocare le risorse in modo aggressivo è una chiave del «successo» per le imprese emergenti, spiega uno studio delle Università di Roma Tor Vergata, de L’Aquila e di Sydney ha approfondito entrambe le strategie

Negli ultimi anni, la nascita di nuove imprese ha registrato un’accelerazione sia a livello nazionale che globale. Ma aprire un’azienda è solo il primo passo: il vero scoglio è restare in piedi. Molte realtà imprenditoriali, infatti, faticano a superare i primi anni di vita e il tasso di chiusura resta elevato. Nel 2020, secondo Eurostat, in Europa il tasso di nuove attività è stato di circa il 10%, mentre le chiusure hanno raggiunto il 9%. Un equilibrio fragile, che nasconde forti differenze tra i Paesi: in Grecia, Belgio e Cipro il numero di imprese cessate resta contenuto (tra il 3% e il 6%), mentre in Bulgaria, Danimarca, Germania, Estonia, Irlanda e Polonia le aziende che hanno chiuso i battenti hanno superato quelle di nuova costituzione. In Italia, il tasso di chiusura – soprattutto nel manifatturiero – è stato di quasi il 7%, mentre le nuove aperture hanno raggiunto circa l’8%. 
Un dato confermato anche dall’analisi Movimprese: tra il 2022 e il 2024 si sono registrate circa 820 mila cessazioni d’impresa, a fronte di 950 mila nuove attività. Tra le città, Roma guida il saldo positivo. Ma sopravvivere è sinonimo di successo solo nel breve termine. Tra quelle che superano il periodo critico – generalmente i primi 3-5 anni – solo una piccola percentuale riesce a registrare una crescita significativa. Nel 2022, la quota di imprese ad alta crescita nell’Ue ha visto la Svezia primeggiare (20%), mentre Cipro ha chiuso la classifica con appena il 2%. L’Italia? Con un tasso del 7%, resta al di sotto della media europea, ma il dinamismo delle startup innovative lascia intravedere spiragli di ottimismo. In sintesi, avviare un’impresa è un’impresa a sua volta. Ma cosa distingue le startup che ce la fanno da quelle che falliscono?

Conservare o investire?

Per una nuova impresa gestire il capitale disponibile è una delle decisioni più critiche. Meglio accumulare riserve per affrontare le incertezze del mercato o investire per crescere rapidamente? Secondo gli studiosi d’impresa, le risorse possono essere allocate, tendenzialmente, secondo due approcci: uno prudente e conservativo, l’altro aggressivo e orientato alla crescita. Le aziende più caute mantengono una solida riserva di liquidità, limitando gli investimenti in infrastrutture, ricerca e tecnologia, con il rischio di stagnazione. Al contrario, chi sceglie di investire subito punta su tecnologia, impianti e nuovi prodotti, conquistando quote di mercato e attirando investitori, ma con minore liquidità e maggiore esposizione finanziaria. Allocare le risorse in modo aggressivo è una chiave del «successo» per le imprese emergenti. È quanto evidenzia uno studio recentemente condotto da Matteo Cristofaro (Università degli Studi di Roma Tor Vergata), Ivo Hristov (Università degli Studi dell’Aquila), Riccardo Cimini (Università degli Studi di Roma Tor Vergata) e Dan Lovallo (University of Sydney), che ha analizzato un campione di imprese italiane tra il 2011 e il 2019, per un totale di circa 44 mila 500 osservazioni. «La strategia di allocazione delle risorse nei primi anni di attività risulta determinante per il futuro delle startup. Le imprese che investono fin da subito in asset materiali e immateriali hanno maggiori probabilità di sopravvivere e crescere in maniera significativa rispetto a quelle che adottano un approccio più prudente, privilegiando la liquidità», spiega Matteo Cristofaro. In particolare, puntare sugli asset tangibili si rivela una scelta strategica. «L’investimento in impianti e macchinari gioca un ruolo cruciale: non solo rafforza la stabilità operativa, ma migliora anche la credibilità dell’azienda agli occhi di investitori e partner strategici», sottolinea Riccardo Cimini.




















































Una questione di policy

Questo approccio, secondo Ivo Hristov, genera benefici su più livelli: «Riduce l’incertezza, abbassa i costi nel lungo termine e innesca un circolo virtuoso che favorisce crescita e competitività». In sintesi, puntare su una strutturata base operativa fin dall’inizio aumenta le chance di sopravvivere ai primi anni di attività e di registrare tassi di crescita elevati nel periodo successivo. Le decisioni iniziali creano un «effetto domino» che può fare la differenza tra una crescita sostenuta e una rapida uscita dal mercato. Se da un lato mantenere liquidità aiuta a gestire le incertezze, dall’altro investire in asset strategici come infrastrutture e macchinari genera basi solide per il futuro. Per gli imprenditori, il messaggio è chiaro: l’audacia può premiare. Una visione strategica nell’allocazione del capitale nelle prime fasi di vita dell’azienda non è solo una scommessa sul presente, ma una scelta che può determinare il successo (o il fallimento) nel lungo periodo. Ma vi è una questione cruciale per la politica industriale italiana: come creare (e soprattutto mantenere in buona vita) un ecosistema imprenditoriale che favorisca il coraggio strategico senza esporre le imprese a rischi insostenibili? «I policy maker possono favorire l’allocazione di capitale in impianti e infrastrutture attraverso sgravi fiscali e incentivi mirati, supportando così le imprese che investono in crescita e competitività», si legge nello studio. In questa direzione si muovono anche alcune recenti iniziative del governo italiano, come il Piano Transizione 5.0, che con una dotazione di 12,7 miliardi di euro mira a sostenere la trasformazione digitale ed energetica delle imprese, e il programma Beni Strumentali – Nuova Sabatini, pensato per facilitare l’accesso al credito delle Pmi che investono in macchinari e attrezzature. Queste misure rappresentano passi importanti per rafforzare la competitività del tessuto imprenditoriale italiano, ma affinché producano effetti concreti e duraturi, è essenziale un impegno continuativo nel tempo, con una visione strategica di lungo periodo. 

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Matteo Cristofaro è Professore Associato in Economia e Gestione delle Imprese presso il Dipartimento di Management e Diritto dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e Socio della Società Italiana di Management

Ivo Hristov è Professore Associato in Economia Aziendale presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale e dell’Informazione e di Economia dell’Università degli Studi dell’Aquila

Riccardo Cimini è Professore Associato in Economia Aziendale presso il Dipartimento di Management e Diritto dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata


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1 maggio 2025

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