La disparità di genere in materia occupazione resta uno dei temi cruciali da considerare quando si parla di diritti e lavoro. Oggi, 1° maggio, celebriamo la Festa dei Lavoratori e la riflessione a riguardo appare più che mai necessaria, se non altro perché nella condizione già precaria e preoccupante in cui versa il Paese esiste un gruppo non trascurabile di persone (circa la metà della popolazione!) che sperimenta una doppia forma di ingiustizia sociale legata al mondo del lavoro.
L’Italia, secondo i dati pubblicati da OpenPolis, è il secondo stato membro d’Europa con il divario più ampio tra occupazione femminile e maschile con quasi 20 punti percentuali in più di inoccupate rispetto alla media del continente. Al sud, poi, la percentuale di donne occupate scende sotto il 50% con picchi in negativo nel nostro territorio che arrivano a toccare il 47% a Corigliano-Rossano, il 42,9% a Castrovillari e 37,4% a Cassano Jonio (il dato è aggiornato al 2021 ed è relativo alla fascia di età compresa tra i 25 e i 49 anni).
A gravare sulla condizione femminile, una serie di fattori che riflettono i limiti strutturali di una società che si fonda ancora su una serie di stereotipi e rigide aspettative sociali, tali da risultare incompatibili con un avanzamento delle politiche a sostegno dell’inclusione equa delle donne e la facilitazione dell’ingresso nel mondo del lavoro.
Anche se molto è stato fatto, nella maggior parte de Paesi, compresi quelli con le economie più avanzate, le donne continuano a essere sottorappresentate nei ruoli dirigenziali, sottopagate a parità di mansioni e spesso escluse da settori ad alta redditività come la tecnologia e la finanza.
Ma il fenomeno è ancora più grave soprattutto se si guarda, al di là del campo di occupazione, alla partecipazione generale delle donne al mercato del lavoro che, come dicevamo, resta significativamente più bassa rispetto a quella maschile.
Tra le cause principali, oltre al limitato accesso in alcuni campi che, con una buona dose di sforzi, potrebbe essere anche limitata, c’è sicuramente il doppio ruolo di cura e impegno nel mondo del lavoro che risultano spesso inconciliabili.
Questa condizione continua a compromettere la possibilità di accedere a impieghi stabili, a tempo pieno, o di fare carriera. Le politiche pubbliche raramente offrono risposte sufficienti: mancano servizi per l’infanzia adeguati, congedi parentali equamente distribuiti e una vera cultura del lavoro flessibile che non penalizzi chi ha responsabilità familiari.
Sempre secondo OpenPolis 1 donna su 5 nel nostro Paese fuoriesce dal mercato del lavoro a seguito della maternità. 55,3% è il tasso di occupazione tra le donne tra 20 e 49 anni con almeno un figlio sotto i 6 anni, nel 2023. Molto meno dei padri coetanei, il cui tasso di occupazione è pari al 90,7%!
A pagare il prezzo di questa diseguaglianza non sono solo le donne ma è l’intera società. Ridurre questo gap nel lavoro, infatti, significherebbe aumentare il PIL, stimolare l’innovazione e garantire maggiore equità sociale. Per farlo, però, servono, come sempre, interventi sistemici: educazione alle pari opportunità, leggi più incisive contro la discriminazione, sostegni alle donne nel ruolo di cura, incentivi alle imprese che promuovono la parità, modelli femminili visibili in ogni settore.
La partecipazione piena delle donne al mondo del lavoro non è solo possibile ma è una condizione necessaria per costruire un futuro più giusto. Continuare a ignorare questa stortura significa accettare una società priva di una parte essenziale di sé, in cui metà del talento e della possibilità restano inespresse.
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