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Formazione in Sardegna: un fallimento sistemico che nessuno vuole ammettere.


Mentre i giovani abbandonano la scuola e i disoccupati restano senza competenze, il sistema formativo sardo, drogato da un fiume di denaro speso ogni anno tra organizzazioni sindacali e agenzie formative varie senza, peraltro, un sistema di monitoraggio valido, continua ad essere sostenuto senza alcuna linea di discontinuità con il passato. Una situazione di fatto dove, paradossalmente, le grandi escluse continuano ad essere le aziende sarde.

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Una regione, la Sardegna, dove, piuttosto di dirottare le risorse per la formazione occupazionale alle imprese, si spendono milioni per sostenere corsi di formazione, per esempio nel settore della ristorazione e accoglienza, gestiti dalle agenzie formative e ramificazioni dei sindacati regionali. E qualcuno, oggi, ha pure la presunzione di mandare comunicati stampa rimarcando il “basso livello di competenze di base” in Sardegna.

Regione dove ci sarà più di un motivo se più del 30% degli studenti isolani non raggiunge i livelli minimi in italiano e matematica e se la dispersione scolastica è al 17,3%. E, nei prossimi 10 anni (quasi a rimarcare le peculiarità di questo sistema sempre più imbarazzante e poco competitivo), l’isola perderà oltre 141mila lavoratori in età produttiva…

Ma da anni la Regione si limita a cambiare nomi ai bandi – spesso vinti dagli stessi consorzi “misto pubblico-privato”, a riformattare PowerPoint e a distribuire risorse senza toccare il nodo vero: un sistema formativo autoreferenziale, scollegato dal lavoro e incapace di adattarsi alla realtà. La mediocrità va mantenuta, diceva tristemente Carmelo Bene.

Sindacati regionali che nel 2025 hanno ancora l’ardire di parlare di rilancio delle “competenze”, dimenticandosi che chi produce ricchezza nell’isola non sono certo le tessere sindacali ma ben altro.

La retorica degli ITS (Istituti Tecnici Superiori) e della “formazione mirata” riesumata ad ogni crisi occupazionale, ancora, chiude il cerchio dell’autoreferenzialità e, nel frattempo, in Regione si rifinanziano le stesse iniziative desuete per la formazione, sostenendo enti capaci di sopravvivere solo grazie ai fondi pubblici. Più che di competitività qui in Sardegna governa solo l’immobilismo.

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Manca, nel frattempo, la minima strategia di lungo periodo, la capacità di leggere il cambiamento tecnologico e sociale, la volontà reale di ascoltare studenti, lavoratori e imprese.

Si deve, all’interno del paradigma sardo, sostenere solo l’assistenzialismo formativo, dove ogni crisi è un’occasione per mettere in piedi nuovi corsi-farsa, nuovi sportelli “di prossimità”, nuovi slogan.

Assente anche la minima rivoluzione culturale nell’isola, capace di portare a trasformare la formazione in un diritto universale, continuo, con percorsi personalizzati, veri collegamenti con il mondo produttivo e un controllo rigoroso sui risultati.

Dunque, fino a quando il sistema formativo sardo continuerà a rispondere alle logiche della politica invece che a quelle del lavoro e della società, continueremo a pagare un prezzo altissimo in termini di disoccupazione, emigrazione giovanile e povertà educativa. Il fenomeno è incontrovertibile.



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