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Gaza è un inferno senza fine


A nessun paese al mondo verrebbe permesso di comportarsi come il governo israeliano nella striscia di Gaza, senza subire conseguenze politiche. La sistematica distruzione di un luogo abitato da oltre due milioni di civili; l’inedia degli assediati come strumento di guerra; un numero spropositato, e accertato, di morti civili; il divieto alla stampa internazionale di entrare nella striscia e i giornalisti di Gaza diventati obiettivi. 

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Dopo 19 mesi di guerra, la brutalità dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 non è più una giustificazione sostenibile. Ancora poco più di un mese e questo diventerà il più lungo dei molti conflitti combattuti da Israele: più di quello del 1947/48 che per gli israeliani è la guerra d’indipendenza e per i palestinesi la Nakba, la catastrofe. Chiunque vorrebbe vedere scomparire Hamas: fino a che resta nella striscia, nessuno parteciperà alla ricostruzione di Gaza, ora lontana e ipotetica. Ma il conflitto è ormai insensato e senza via d’uscita proprio perché Benjamin Netanyahu non ha stabilito quale ne dovesse essere l’obiettivo politico

Ora il premier del governo più estremista della storia dello stato ebraico, ha stabilito nuovi piani di battaglia. “Sradicare” Hamas dalla striscia è lo scopo dichiarato: piuttosto elusivo, dopo mesi di guerra senza risultati, durante i quali Israele ha dispiegato tutta la forza militare che possiede e lanciato le bombe più grandi e distruttive dell’arsenale americano: garantite in maniera bipartisan da Donald Trump e da Joe Biden

Ma più dei precedenti, le modalità dei piani di questa nuova battaglia annunciata danno la sensazione che nel Nord della striscia si stia preparando qualcosa di peggio: la prima fase della pulizia etnica dei palestinesi di Gaza. È dichiaratamente perseguita dagli alleati di governo più estremisti, dai cui numeri dipende la sopravvivenza politica di Netanyahu. 

Eppure, forse distratti e preoccupati da troppi avvenimenti, la reazione globale è ai limiti dell’inesistente. “Siamo incapaci di mobilitare la comunità internazionale per prevenire questa ingiustizia”, ammetteva qualche giorno fa Tom Fletcher, il responsabile degli affari umanitari dell’Onu. Si riferiva all’assenza di cibo, acqua e medicinali, imposta da due mesi dagli israeliani. Non c’era infatti bisogno delle ultime decisioni di Netanyahu per iniziare a protestare: pensare di piegare Hamas affamando i civili, potrebbe essere configurato come un crimine di guerra

Pochissimi governi europei hanno preso posizione seriamente. Non per la prima volta, Ursula Von der Leyen ha mostrato un silenzio imbarazzante. E non sembra che la responsabile della diplomazia Ue, l’estone Kaja Kallas, consideri la guerra a Gaza una priorità umanitaria. Forse è stato un errore scegliere una personalità comprensibilmente troppo coinvolta con un’altra brutalità, quella dei russi in Ucraina: per generazioni la famiglia di Kallas è stata vittima dell’imperialismo sovietico. Il suo predecessore, lo spagnolo Josep Borrell, aveva colto con più attenzione quanto la stabilità o l’instabilità del Medio Oriente sia importante per l’Europa. 

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Tace anche l’Arabia Saudita che all’inizio della guerra, per far pesare il suo ruolo politico ed economico, aveva posto la condizione della ripresa di una trattativa sul futuro della Palestina. Ed è sorprendente che, in tutto questo tempo, gli avvenimenti di Gaza non abbiano prodotto nell’opposizione israeliana una leadership nuova e determinata, un’alternativa politica credibile. Benny Gantz e Yair Lapid balbettano, nuove figure capaci latitano. L’unica vera opposizione all’insensato massacro di Gaza, e non solo per la liberazione degli ostaggi israeliani, è un quotidiano: Ha’aretz

È tuttavia interessante notare che l’inizio delle nuove operazioni militari a Gaza sia stato rinviato – almeno così sembra – alla fine della visita di Donald Trump in Medio Oriente: Arabia Saudita, Qatar, Emirati e Israele, la settimana prossima. Potrebbe essere un tentativo israeliano di fare pressione sugli Stati Uniti: forse Netanyahu pensa sia ancora viva l’idea che aveva avanzato il presidente americano di una “Riviera”, con l’allontanamento degli abitanti della striscia. Ma quando aveva chiesto a re Abdullah di accogliere i palestinesi di Gaza, il monarca aveva spiegato a Trump che in proporzione alla demografia, la Giordania aveva già molti più immigrati degli Stati Uniti. Da allora il presidente non ne ha più parlato: in Medio Oriente cerca affari, non conflitti e questo potrebbe riservare sorprese poco gradite a Netanyahu. 



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