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Il grande bluff del capitalismo di Stato


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Crescono gli apparati, arretra la libertà. Ma nessuno sembra preoccuparsene

Non è mai facile spiegare perché l’illusione statalista continui ad affascinare anche chi dovrebbe aver imparato la lezione. Le crisi, è vero, scuotono i paradigmi. Ma a volte più che cambiare le idee, le cancellano: non si rivedono alla luce di nuove prove, si abbandonano alla prima scossa, spesso per tornare agli istinti più antichi. Ed è questo che accade oggi con il rinnovato entusiasmo per il capitalismo di Stato, che Panorama ha da poco celebrato con toni trionfalistici nel pezzo “Orgoglio di Stato”, peraltro già enfatizzato nel titolo.

Secondo l’autore dell’articolo, il successo internazionale di aziende come Eni, Enel, Leonardo o Ferrovie dello Stato dimostrerebbe che la mano pubblica, lungi dall’essere un freno, può essere la più efficace leva di espansione industriale. Ma è davvero così? O non siamo piuttosto davanti a una narrazione conveniente, che confonde il successo apparente dell’intervento statale con un progresso reale per la società e l’economia?

Chi difende il capitalismo di Stato parte da una premessa tanto comoda quanto fuorviante: che lo stesso possa essere un attore economico come gli altri, guidato da obiettivi strategici e animato da una lungimiranza superiore a quella dell’imprenditore privato, il quale sarebbe schiavo del profitto a breve termine. Ma questa visione ignora che l’apparato pubblico non gioca mai ad armi pari: il suo potere di coercizione, il privilegio del prelievo fiscale, il controllo della moneta, della normativa e spesso anche della concorrenza gli consentono di operare in un regime monopolistico mascherato.

Lungi dall’essere una forza imprenditoriale virtuosa, lo Stato che si fa imprenditore distorce il mercato, allontana capitali privati, centralizza scelte che dovrebbero essere distribuite, e finisce quasi sempre per trasformare l’economia in una macchina a due velocità: quella delle imprese sussidiate e quella delle imprese abbandonate.

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Si celebra il successo delle Ferrovie nello Eurotunnel, o di Leonardo nel campo aerospaziale, ma si tace sui costi occulti di questa espansione. Gli investimenti pubblici che generano “orgoglio” oggi sottraggono risorse a milioni di consumatori e imprenditori che non vedono mai riconosciuta la loro libertà di scelta. Ogni euro speso dalle aziende statali è un euro sottratto a chi lo ha guadagnato.

“Per ogni progetto non redditizio realizzato con il contributo governativo”, ha ammonito l’economista Henry Hazlitt, “c’è un’iniziativa corrispondente la cui attuazione è resa impossibile dall’intervento delle autorità. (…) Dal punto di vista dei consumatori, l’impiego di mezzi di produzione per la realizzazione di un progetto non redditizio è perciò uno spreco”. Quando il pubblico “vince”, un mercato alternativo viene precluso, un’impresa privata scoraggiata, un’innovazione ritardata.

La recente stagione delle crisi – dalla pandemia alla guerra, passando per l’inflazione energetica – è stata usata come pretesto per rilegittimare l’economia pianificata dall’alto. È tornato di moda il concetto di “strategico”, come se l’apparato pubblico potesse davvero sapere cosa serve al Paese meglio dei milioni di attori economici che ogni giorno compiono scelte libere, disperse, razionali proprio perché personali. Il fatto che le già menzionate Leonardo, Enel, Eni o Cdp siano oggi protagonisti internazionali non dimostra l’efficacia dell’intervento pubblico, ma piuttosto la capacità dello Stato di concentrare risorse e protezioni per garantirsi visibilità e dominio.

La tesi secondo cui queste aziende pubbliche sarebbero persino “meglio” di quelle private è, poi, non solo audace ma gravemente miope. Non tiene conto del fatto che i loro bilanci si alimentano spesso con posizioni di rendita istituzionalizzate, che le loro mosse internazionali sono rese possibili da relazioni diplomatiche costruite e sostenute con fondi pubblici, e che le perdite – quando arrivano, e arrivano sempre – sono scaricate sulle spalle di tutti.

La verità, come ha già insegnato Ludwig von Mises, è che l’imprenditore privato rischia il proprio capitale e risponde al mercato; il burocrate maneggia quello altrui e risponde ai politici. Non è un caso che abbia scritto: “Se a un manager è data mano libera, le cose vanno diversamente. Egli specula e rischia così il denaro degli altri”. Vede le prospettive di un’iniziativa incerta da un’angolazione differente da quella di colui che è tenuto a rispondere delle perdite. È la responsabilità diretta, non la delega opaca, che disciplina davvero chi agisce nel mercato. Lo si è visto con Alitalia, con Ilva, con Monte dei Paschi di Siena. Lo si continuerà a vedere, anche se oggi l’andamento congiunturale nasconde le distorsioni strutturali.

Nel mondo libero, la concorrenza seleziona il meglio, l’interesse personale, canalizzato attraverso il mercato, si trasforma in benessere generale, e la grandezza di un’impresa si misura dalla sua capacità di servire i consumatori, non dall’intimità con i centri del potere. Non serve essere grandi, né pubblici, per essere utili alla società. Anzi, come la storia insegna, più si espande l’apparato statale, più si restringe lo spazio della libertà. Lo ha anche ricordato Mises, sottolineando che: “La funzione imprenditoriale, il perseguimento del profitto, è la forza propulsiva dell’economia di mercato. (…) Rende un uomo tanto più influente nella direzione dell’attività economica quanto più ha successo nel servire i consumatori”. È questa la vera superiorità dell’impresa privata: non il privilegio, ma la capacità di rispondere liberamente, e meglio, ai bisogni degli altri.

Aggiornato il 09 maggio 2025 alle ore 10:04

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