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svolta UE contro i monopoli digitali


Google ha violato la legge antitrust da almeno 15 anni, monopolizzando i mercati della pubblicità digitale online. Così, ha danneggiando non solo i propri inserzionisti, ma anche il processo competitivo nel suo insieme e, in ultima istanza, gli interessi dei consumatori di informazioni online.[1]

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Google e il monopolio nella pubblicità e nella ricerca online

L’accertamento svolto dalla Corte distrettuale della Virginia è il punto di arrivo di un procedimento avviato dal Department of Justice statunitense nel 2020, per far fronte alle pratiche illecite poste in essere da Google per limitare l’accesso al mercato da parte di motori di ricerca concorrenti. In particolare, secondo il Tribunale, Google avrebbe concluso degli accordi con i principali fornitori di sistemi operativi, quali Apple ed Android, allo scopo di garantire che Google Search sia il motore di ricerca di default, allo scopo di escludere la concorrenza.  

Quanto accertato dalla Corte distrettuale della Virginia nel recente caso United States et al. contro Google[2], si riflette in procedimenti paralleli che stanno avendo luogo in Europa e che hanno ad oggetto le ramificazioni del monopolio di Google Search in altri settori dell’intermediazione online. Il 10 settembre 2024, anche la CGUE ha finalmente avuto modo di pronunciarsi sulla lunga “saga” Google Shopping, avente ad oggetto comportamenti anticoncorrenziali di Google, che si protraggono ormai dal 2008 e che potrebbero aver segnato in modo indelebile lo sviluppo (mancato) del mercato europeo dell’intermediazione online e delle pubblicità online. Con la decisione di settembre, la CGUE ha accertato che Google non solo avrebbe progettato l’interfaccia dei propri siti, ed in particolare di Google Search, in modo da escludere i concorrenti dalle posizioni più facilmente visibili dai consumatori, le cosiddette Shopping Units, ma anche che avrebbe combinato questo espediente con un posizionamento sfavorevole a danno dei concorrenti.

Secondo la Corte, questi potevano essere raggiunti solo dopo ulteriori ed attente ricerche da parte dei consumatori, ma non erano, nella grande maggioranza dei casi, immediatamente visibili.

Differenze e convergenze tra il diritto antitrust europeo e statunitense

Diventa allora interessante tracciare un parallelismo, o meglio una linea di continuità tra la decisione statunitense e quella europea. Da un lato, il giudice statunitense ha affermato che Google pone in essere condotte idonee ad escludere i propri concorrenti dal mercato dei servizi di ricerca online. D’altro canto, il giudice europeo ha aggiunto che Google sfrutta indebitamente la propria posizione dominante nel mercato delle ricerche online, per avvantaggiare anche alcuni propri servizi secondari (nel caso di specie, servizi di intermediazione nelle vendite online e comparazione di prezzi).

Il digital markets act come nuovo strumento di controllo

La condotta evidenziata dalla CGUE nel caso Google Shopping, oltre a rappresentare un abuso di posizione dominante riecheggia anche uno dei divieti imposti ai gatekeepers nel nuovo Digital Markets Act: il divieto di favouring di cui all’art. 6(5)[3]. Il Regolamento appena citato si aggiunge alla normativa antitrust tradizionale, da cui sfociano le sentenze appena descritte. È entrato in vigore nel 2024 e mira a fornire alle autorità europee degli ulteriori strumenti per contrastare il dominio che poche grandi piattaforme esercitano nel mercato dei servizi online.

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Criticità nell’applicazione dell’antitrust nel contesto digitale

È necessario porre alcune premesse. Il Digital Markets Act, ha l’obiettivo di ovviare alla difficoltà di applicare il tradizionale diritto dell’antitrust alla concorrenza online. Nel contesto digitale, identificare un mercato rilevante, presupposto indispensabile per l’accertamento di una posizione dominante all’interno dello stesso mercato, è particolarmente difficile. Si pensi solo agli effetti di rete grazie ai quali le aziende online sono in grado di espandere la propria posizione di mercato in servizi non correlati con il proprio servizio principale. D’altro canto, i servizi online si evolvono con grande rapidità. Accertare delle violazioni, ed applicare i rimedi ex post tipici del diritto della concorrenza in questo contesto rapido e mutevole, non è agevole e rischia in ogni caso di arrivare a delle sanzioni quando i danni per il mercato concorrenziale sono ormai irreparabili.

Un’ulteriore peculiarità del settore in esame è che le aziende che in Europa detengono quote di mercato importanti sono tutte statunitensi, con l’eccezione della cinese ByteDance, e di Booking.com (olandese, con azionista di maggioranza statunitense). La creazione di cosiddetti “campioni nazionali” rientra nelle strategie nazionali USA e cinesi, che, spesso, hanno volutamente omesso o tardato l’applicazione delle rispettive normative nazionali in materia antitrust, al fine di favorire il successo internazionale dei propri servizi.

Chi sono i gatekeeper e quali obblighi devono rispettare

Il Digital Markets Act, come si diceva, interviene al fine di ovviare ai limiti del diritto antitrust tradizionale. A questo fine, innanzitutto, introduce la nozione di gatekeeper, definito come un’impresa che manifesta tre tratti fondamentali:

  • detiene una quota di mercato rilevante, che si presume esistere al raggiungimento di alcuni parametri oggettivi;
  • controlla un servizio di piattaforma di base, vale a dire uno dei servizi elencati come tali nel Digital markets Act e che includono motori di ricerca, piattaforme e-commerce, app stores, browser, piattaforme social media, ecc., tutti servizi che rappresentano gateway importanti, un tramite, che mette in contatto gli utenti commerciali (potenziali concorrenti del gatekeeper) con gli utenti finali (i consumatori).
  • Presenta le altre due caratteristiche in modo continuativo (almeno per due dei tre precedenti anni di bilancio), sì che si possa ritenere che abbia una posizione di mercato solida.

Quando un gatekeeper viene identificato come tale dalla Commissione UE, ad esso si applicano automaticamente tutti gli obblighi previsti dagli artt. 5 – 7 del Digital Markets Act. Ripercorrerli uno ad uno sarebbe gravoso per il lettore e ridondante, dal momento che la maggior parte di essi sono specifici per alcuni core platform services. Ad esempio, i gatekeeper che forniscano un sistema operativo devono consentire agli utenti finali di disinstallare le app preinstallate. Giova però precisare che si tratta di obblighi applicabili ex ante. L’offerta di servizi online da parte dei gatekeepers deve quindi avvenire conformemente alle previsioni dettagliate offerte dal Digital Markets Act. La mancata ottemperanza può dar luogo a sanzioni fino al 10% del fatturato annuo globale del gatekeeper.

Vantaggi del DMA rispetto al diritto antitrust tradizionale

Si evidenzia così come uno dei maggiori vantaggi del Digital Markets Act sia di invertire l’onere della prova nei procedimenti antitrust. Mentre l’antitrust tradizionale presupponeva i gravosi accertamenti che si sono brevemente descritti sopra, il DMA prevede una serie di obblighi ex ante. Nel momento in cui un soggetto viene individuato come gatekeeper, ha un anno per conformarsi, a partire dal momento dell’accertamento della difformità del servizio dagli obblighi ex ante di cui agli artt. 5 – 7 dello stesso DMA.

Prime applicazioni pratiche del DMA e sanzioni alle big tech

Tornando alle vicende relative alle società che sono già state identificate come gatekeepers (Amazon, Apple, Meta, Microsoft, ByteDance, Alphabet, Booking), si deve tener conto che Meta e Apple sono già state colpite da alcuni provvedimenti sanzionatori, rispettivamente per 200 e 500 milioni di euro. Gli accertamenti preliminari comunicati dalla Commissione UE ad Alphabet il 19 marzo 2025 dichiarano che le funzionalità di Google Search continuano a discriminare i concorrenti di Google, non assicurandogli così un trattamento trasparente, equo e non discriminatorio.  Sebbene i dettagli della decisione non siano ancora disponibili, questo sembra confermare che la Commissione ritenga che i servizi di Google continuano ad essere difformi dalle prescrizioni del Digital Markets Act.

Il ruolo dei giudici nazionali nel private enforcement

Proprio queste ultime note offrono il fianco per alcune considerazioni sul potenziale ruolo delle autorità nazionali. Dalle brevi considerazioni che si sono svolte sul sistema di rimedi previsto dal DMA, risulta evidente che la Commissione UE ha un ruolo centrale. In effetti, il legislatore del DMA sembra aver voluto privilegiare un’applicazione uniforme del Regolamento in questione, preoccupandosi di limitare la possibilità che le autorità della concorrenza nazionali possano prendere decisioni difformi da quelle adottate dalla Commissione.

Un ruolo fondamentale è affidato ai giudici nazionali. Infatti, le autorità antitrust, siano esse nazionali o europee, possono solo sanzionare eventuali difformità dei gatekeepers, ma non risarcire i loro concorrenti dei danni subiti. Questo ruolo spetta ai giudici nazionali, secondo un procedimento che prende il nome di private enforcement.

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Tale procedimento è preso in considerazione nel DMA nel considerando 42, dove si chiarisce la loro centralità (insieme alle autorità nazionali di tutela della concorrenza – come l’AGCM) nella tutela dei diritti delle imprese e degli utenti finali dei gatekeepers.

Cooperazione tra Commissione Ue e giudici nazionali

In concreto, i meccanismi di cooperazione tra i giuridici nazionali e la Commissione sono descritti all’art. 39 del DMA. Anche qui, l’esigenza di assicurare un’applicazione uniforme del Regolamento, sembra essere la preoccupazione principale. I giudici nazionali possono chiedere alla Commissione di trasmettere informazioni in suo possesso o opinioni sull’interpretazione del DMA. Le decisioni dei giudici nazionali devono inoltre essere trasmesse alla Commissione, che può inviar osservazioni scritte o orali al giudice, al fine di favorire un’applicazione coerente del regolamento.

In generale, i giudici nazionali non possono adottare una decisione contraria alle decisioni adottate dalla Commissione e per questo sono invitati a sospendere eventuali giudizi quando un procedimento riguardante la medesima materia è in corso davanti alla Commissione. Tuttavia, quando una decisione di non-compliance al Digital Markets Act sia stata già presa dalla Commissione UE, il lavoro dei giudici nazionali può risultare facilitato, dovendosi sostanzialmente limitare alla quantificazione dell’ammontare del danno.

Interazione tra DMA, GDPR e Regolamento P2B

Un ruolo attivo può essere giocato da autorità nazionali competenti per l’applicazione di diversi Regolamenti UE, la cui violazione può essere indice del mancato rispetto di un obbligo ai sensi del Digital Markets Act, ed in particolare il Garante dei Dati Personali e l’AGCOM. Infatti, alcune delle pratiche vietate dal Digital Markets Act possono consistere in violazioni di altri regolamenti europei, in particolare il Regolamento 2016/679 (il GDPR) ed il Regolamento 2019/1150 (o Regolamento P2B).

In particolare, l’art. 5 (4) del DMA vieta di indurre gli utenti finali di un core platform service (consumatori) ad accedere con registrazione ad altri servizi del gatekeeper al fine di combinare dati personali, a meno che sia stata presentata all’utente finale la scelta specifica e quest’ultimo abbia dato il proprio consenso ai sensi del GDPR. Se l’utente finale ha negato o revocato il consenso prestato ai fini del primo comma, il gatekeeper non ripete la sua richiesta di consenso per la stessa finalità più di una volta nell’arco di un anno. Specularmente, il GDPR chiarisce, al considerando 42, che chi tratta dei dati personali deve essere in grado di dimostrare che l’interessato ha effettivamente acconsentito al trattamento, stabilendo in generale un principio di libertà del consenso, all’art. 7.

In realtà, si deve notare come alcuni gatekeepers non abbiano cessato di utilizzare pratiche che appaiono potenzialmente contrarie a questa previsione, quale ad esempio tecniche di preselezione dei consensi. L’utente, omettendo, come è frequente, di leggere le condizioni contrattuali, le scorre senza leggerle e, accettando di utilizzare il servizio, finisce per acconsentire al trattamento di dati “incrociato” tra vari servizi del gatekeeper. L’esempio appena riportato rappresenta non solo una violazione del principio di libertà del consenso espresso nel GDPR, sanzionabile con una multa pari a 20 milioni di euro o fino al 4% del fatturato annuo dell’esercizio precedente (GDPR, art. 83 (5)), ma anche una possibile violazione dell’art. 5 (4) del DMA, soggetta alle sanzioni.

Allo stesso tempo, il divieto di favouring espresso dall’art. 6 (5) del DMA vieta, come si diceva, che il gatekeeper tratti i propri servizi secondari in modo più favorevole rispetto ai propri concorrenti, ad esempio relegando tali concorrenti in una posizione meno favorevole. L’art. 5 del Regolamento 2019/1150 (o Regolamento P2B), specularmente prevede un obbligo (applicabile non solo ai gatekeeper ma a tutti gli intermediari online/motori di ricerca) di indicare nei propri termini e condizioni i parametri che determinano il posizionamento dei propri servizi, specificando anche l’importanza relativa dei diversi parametri. L’accertamento dell’esistenza di una pratica vietata ai sensi dell’art. 6(5) del DMA da parte della Commissione, può allora facilitare anche il lavoro delle autorità nazionali preposte all’applicazione del Regolamento P2B: se un favouring esiste, di norma è accompagnato da una certa opacità dei criteri di posizionamento nei termini e condizioni del gatekeeper.

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Le sfide di compliance per i fornitori di servizi digitali

Dalle brevi note sopra può comprendere come la regolamentazione dei servizi digitali metta i fornitori di tali servizi di fronte a uno scenario complesso di compliance, dove la stessa componente di servizio può essere soggetta a molteplici scrutini e sanzioni, sia a livello UE che a livello nazionale, suscettibili di valutazioni diverse da parte di regolatori diversi. Sarà interessante in futuro comprendere se le varie Autorità interessate decideranno di giocare questa partita, collaborando tra loro o cercando la primazia nell’applicare la sanzione e contestare pratiche non conformi e se si potranno creare casi di “bis in idem” rispetto al medesimo comportamento, sanzionato su più fronti. È prevedibile che le autorità nazionali possano comunque rifarsi ai rilievi e all’inquadramento dei fatti derivante dai provvedimenti della Commissione UE per capire se sindacare o no un determinato comportamento dei medesimi provider nei rispettivi ambiti di competenza.

Note


[1] https://www.justice.gov/opa/pr/department-justice-prevails-landmark-antitrust-case-against-google#:~:text=In%20United%20States%20et%20al,open%2Dweb%20digital%20advertising%20markets.

[2] Disponibile in lingua originale presso: https://www.justice.gov/opa/pr/department-justice-prevails-landmark-antitrust-case-against-google

[3] Reg. UE 2022/1925.



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