Le risposte dell’esecutivo alla stagnazione si sono rivelate insufficienti. I dati parlano chiaro: la produzione industriale è in recessione da due anni, con un calo del 3,5 per cento nel 2024. Il Pil italiano cresce a ritmi dimezzati rispetto alle previsioni
L’Italia vive una fase di stagnazione economica e declino della produzione industriale che si protrae ormai da anni, ma la risposta del governo Meloni si è rivelata ad oggi insufficiente e priva di una strategia di lungo periodo che un governo di legislatura poteva invece avere. I dati parlano chiaro: la produzione industriale è in recessione da due anni, con un calo del 3,5 per cento nel 2024, e il Pil italiano cresce a ritmi dimezzati rispetto alle previsioni governative e ben al di sotto della media europea.
In questo scenario, il governo si è limitato a interventi tampone, come il taglio del cuneo fiscale e l’accorpamento degli scaglioni Irpef, misure che agiscono più sul lato della domanda che su quello dell’offerta e non affrontano i nodi strutturali che affliggono il tessuto produttivo nazionale.
Anche laddove il governo ha tentato di promuovere strumenti di rilancio, come il piano Transizione 5.0, l’esito è stato fallimentare: delle risorse stanziate per incentivare gli investimenti delle imprese, ne è stata spesa solo una minima parte, a causa di procedure troppo complicate che hanno aumentato la burocrazia invece di semplificarla e costretto l’esecutivo a correggere tardivamente la rotta.
Sul fronte della transizione ecologica, il governo Meloni ha adottato una posizione apertamente critica, definendo le politiche Ue «ideologiche» e «disastrose», e chiedendo addirittura la sospensione delle regole più stringenti, specie per il settore automotive già duramente colpito. Era queste una delle promesse più feconde tra quelle fatte all’elettorato del centrodestra, giustamente scettico verso un approccio europeo fondato su divieti, pianificazione, tasse e regole per promuovere l’ecologismo. La premier e i suoi ministri hanno più volte rivendicato la necessità di un approccio «pragmatico», ma nei fatti questa linea si è tradotta in una resistenza passiva alla transizione verde, che ha prodotto alcune correzioni ma non ha fermato gli obiettivi di decarbonizzazione – ancora utopistici oggi e ancora in vigore – fissati dalla Unione europea.
Certo il governo può dire di aver contribuito all’alleggerimento di alcune regolamentazioni, come quella sulle multe rinviate ai produttori di auto o di aver alleggerito la direttiva case green, ma la promessa di smontare l’ecologismo è per gran parte irrealizzata. Lo si nota dalle difficoltà che l’esecutivo attraversa sul dossier Ilva. Il ministro Urso si lamenta della transizione ecologica che mette in difficoltà i produttori di acciaio e rende accidentato il rilancio dell’acciaieria italiana, ma alla fine proprio i partiti della maggioranza, oramai al potere da due anni e mezzo, hanno raccolto poco a Bruxelles rispetto a questo.
Sempre su Ilva, inoltre, sembra andare in frantumi il sovranismo economico con Acciaierie Italia vicina alla cessione a Baku Steel, un produttore controllato da uno stato straniero e con un piano industriale per Taranto oggi poco chiaro. Chi si aspettava una nazionalizzazione di Ilva, con un rilancio industriale che passava anche attraverso una lotta contro l’ambientalismo, è rimasto deluso. Anche sull’automotive, e la sua filiera, il governo viaggia a fari spenti nella notte. È alta la probabilità che nei prossimi anni questo dovrà occuparsi più di cassa integrazione che di possibilità di sviluppo industriale.
È il segno che il governo, per mancanza di fondi, di competenze e di volontà politica, non riesce ad avere una politica di sviluppo industriale. Si pensi anche alle grandi infrastrutture energetiche, come i rigassficatori per non parlare ovviamente del nucleare, che restano un tabù anche per un governo che tra produttori e settore privato annovera i propri principali sostenitori. Se contestare l’ideologia ambientalista è senza dubbio una strategia politica, che nel caso dei partiti di destra ha portato consenso, questa è molto più difficile da trasformare in una strategia di governo. Lo stesso Pnrr, pur rimaneggiato dal governo dando maggiore spazio agli incentivi industriali, è rimasto un’arma spuntata per il rilancio della competitività per colpa di tutti i governi che ci hanno lavorato.
Infine, uscire da politiche pubbliche che sono incardinate da anni a livello europeo è difficile, anche quando si ha la maggioranza degli elettori dalla propria parte. Il governo, dunque, è costretto ad una transizione ecologica obtorto collo, fatta puntando i piedi ma non potendo più di tanto modificarne gli impatti. L’attuazione del Pnrr e della Transizione 5.0 ne sono un esempio. E poi, oltre all’opposizione nei confronti delle politiche pre-esistenti, non si intravedono strategie per spingere lo sviluppo industriale ed economico italiano.
Il centrodestra può sempre raccontare ai propri elettori di aver evitato il peggio, di aver frenato il frenabile sul green, ma un governo che si avvia alla sua quarta legge di bilancio oramai pare aver inciso davvero poco sul piano dell’economia reale. Non è una questione solo di parte, visto che tali questioni di sviluppo economico sembrano esser state rimosse anche dalla sinistra, ma riguarda il futuro del paese. Della sua futura forza, del suo benessere, della sua capacità industriale, ma oggi – tra enfasi sulla geopolitica e schermaglie su temi secondari – la classe politica non sembra curarsene affatto.
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