La decisione della Federal Reserve di mantenere invariati i tassi di interesse in un intervallo compreso tra il 4,25% e il 4,50% rappresenta un segnale forte di prudenza. Ma in un contesto di euro debole e crescenti tensioni economiche globali, quali sono le ricadute concrete per l’Italia?
Per comprendere l’impatto di questa scelta, è essenziale analizzare sia le motivazioni della Federal Reserve, sia la dinamica euro-dollaro, che sta penalizzando la moneta unica. Due fattori che, combinati, rischiano di influenzare in modo rilevante l’economia italiana, dall’export al debito pubblico, fino al potere d’acquisto dei cittadini.
Perché la Fed ha deciso di restare ferma sui tassi Usa?
Il presidente Jerome Powell è stato chiaro: “Possiamo essere pazienti”. Un’affermazione che fotografa perfettamente l’atteggiamento attendista della Fed. L’economia statunitense, sebbene incerta, è ancora considerata “in una posizione solida”. I rischi, però, non mancano: l’amministrazione Trump ha reintrodotto dazi commerciali che potrebbero avere effetti ancora poco quantificabili, e l’incertezza macroeconomica globale è aumentata.
In questo scenario, la decisione della Fed è stata quella di congelare i tassi. Non è un segnale di debolezza, ma piuttosto di cautela. La banca centrale americana vuole evitare di comprimere eccessivamente la crescita, ma allo stesso tempo desidera monitorare con attenzione i segnali d’inflazione, disoccupazione e impatti dei dazi.
Parallelamente, il differenziale nei tassi tra Bce e Fed, le tensioni geopolitiche e l’instabilità politica in alcuni Stati membri, stanno spingendo gli investitori verso la valuta statunitense, considerata più sicura e redditizia. Questo ha un impatto sull’euro, che continua a perdere terreno sul dollaro.
Un problema crescente per l’Europa (e l’Italia)
Ad aprile 2025 il cambio euro/dollaro ha toccato i minimi da oltre un anno, stabilizzandosi sotto quota 1,06. E questo è un problema per l’Europa e, quindi, anche per l’Italia perché la debolezza dell’euro comporta un aumento del costo delle importazioni, specialmente per materie prime come gas, petrolio e grano, che vengono negoziate in dollari. Per un Paese importatore come il nostro, ciò si traduce in un aumento dei prezzi alla produzione e, a cascata, al consumo.
L’Italia importa oltre il 75% dell’energia che consuma, in gran parte in dollari. Un euro debole rende quindi più costose le forniture energetiche. Questo fenomeno si traduce direttamente in un aumento dei costi per le imprese e delle bollette per le famiglie. In un momento in cui l’inflazione è già sopra i livelli auspicati, il cambio sfavorevole potrebbe accentuare le pressioni sui prezzi, alimentando il malcontento sociale e complicando le scelte di politica fiscale.
La Banca Centrale Europea si trova in una posizione scomoda, ovvero scegliere se continuare a mantenere i tassi alti per ancorare le aspettative sui prezzi, oppure allentarli per stimolare la crescita. Tuttavia, un eventuale taglio anticipato potrebbe indebolire ulteriormente l’euro e alimentare le distorsioni nei prezzi energetici.
Christine Lagarde è consapevole dei rischi e per ora predica prudenza. Ma la pressione sui governi europei, Italia in testa, aumenta.
Cosa dovrebbe fare il governo italiano? Perché se è vero che il rischio di una crescita anemica impone politiche di stimolo, bisogna dire anche che i margini di manovra fiscale sono stretti. In questo contesto, alcune priorità sono chiare. Per esempio, diventa importante difendere il potere d’acquisto, attraverso misure mirate per contenere l’impatto dei rincari energetici, ma anche sostenere l’export, magari rafforzando gli strumenti di promozione e le garanzie pubbliche per le imprese che operano fuori dall’Ue.
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