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Chi boicotta i referendum. Ma i sì aiutano lavoro e imprese


Se tu, imprenditore, lavoratrice o diplomata, sai che dovrebbe essere uscito un bando ma lo trovi poco pubblicizzato e senti di continuo ripetere che è mal disegnato o magari “cucinato per qualcuno”, ti viene il dubbio che quel bando sia invece proprio adatto a te. Che ti stiano imbrogliando. E che sia il caso di concorrere. È la sensazione forte che insorge oggi per i 5 referendum dell’8-9 giugno.

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Le stanno inventando tutte per scoraggiare il voto: modesto/nullo contributo informativo e di inchiesta dei media; paralisi burocratica della tv pubblica; invito di un’alta autorità dello stato a non votare; da ultimo, la trovata dei «quesiti mal posti» letta su La Repubblica (articolo del prof. Tito Boeri del 15 maggio). Troppe mosse. Evidentemente il voto diretto, referendario, infastidisce. E allora ti scatta l’idea, comunque la pensi, che forse votare è nel tuo e nostro interesse.

Perché votare

Effettivamente, ci sono due ragioni per votare ai referendum. La prima riguarda proprio il voto in sé. I quesiti non sono affatto mal posti né «comportano cambiamenti opposti a quelli che hanno in mente i proponenti» (ancora Boeri su La Repubblica a proposito dei quesiti sul lavoro). A garantircelo è la Corte Costituzionale che con le sue sentenze assai chiaramente argomentate ne ha riconosciuto l’impatto corrispondente alle intenzioni e univoco, altrimenti non avrebbe potuto approvarli.

E allora, in questa democrazia fragile, dove, a causa di leggi elettorali grottesche, non sappiamo più chi eleggiamo in Parlamento, il vecchio, rodato strumento del referendum ci consente di dire la nostra, sapendo chiaramente cosa succederà se votiamo no o sì.

Una forte affluenza sarebbe una scossa positiva per la democrazia. Mostrerebbe a noi stessi che possiamo ancora contare. Per questo è importante l’invito generale del presidente Sergio Mattarella a «non arrendersi all’astensionismo», apprezzabile che a votare vada l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi (con due no ad abolire provvedimenti di cui fu artefice) e immaginabile e coerente che vada l’attuale presidente del Consiglio (che contro quei due provvedimenti votò).

Tutelare lavoro e imprese

E poi ci sono i motivi per votare sì.

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Un sì ai quattro referendum sul lavoro serve come il pane a imprese e lavoro. Serve per premiare le imprese che, nonostante cattive politiche, hanno reagito e stanno reagendo bene alla sfida della concorrenza internazionale e della tecnologia, usano in modo strategico il lavoro a tempo determinato, curano la sicurezza di chi lavora.

Loro già fanno ciò che il sì ripristina normativamente, ma quel ripristino serve a tutelarle dalla concorrenza sleale delle imprese che non lo fanno. E poi serve al lavoro. A ridare dignità e sicurezza a lavoratrici e lavoratori, garantendo che imprenditrici e imprenditori mariuoli siano davvero scoraggiati dalla legge; e dunque serve a migliorare le relazioni industriali. Come ha scritto la Corte nell’ammettere i quattro referendum, le norme vanno giudicate sia per la tutela di chi è colpito da comportamenti illegittimi – che cresce – sia per la deterrenza dal commettere illegittimità – che pure cresce. Vediamo in concreto nei quattro casi.

Il referendum sui licenziamenti illegittimi non sfiora le ragioni di illegittimità di un licenziamento, ma la sanzione che ne deriva. Supponiamo che io sia un imprenditore che ha effettivamente una difficoltà aziendale (motivo legittimo per licenziare). Ma ne approfitto per cacciare una specifica persona, che magari pretendeva di avere le sue idee su come raddrizzare le cose o che sapeva mobilitare altre persone; so che non c’è alcun nesso con la difficoltà o con la strategia per superarla, ma ci provo. Vado in giudizio. Il giudice mi dà torto.

Con la norma oggi esistente, ho comunque ottenuto il risultato di licenziarla, cavandomela con un costo monetario. Peggio. Prima del giudizio, posso offrire alla persona che ritiene di essere stata illegittimamente licenziata una somma con un “assegno circolare” non tassabile e senza previdenza. “Pochi, maledetti e subito!”, insomma, per liquidare chi lavora, senza neppure contributi previdenziali. Si tratta chiaramente di un lasciapassare “stile Italietta” a fare cattiva impresa, mortifica il lavoro, crea amoralità e incentiva cattive relazioni fra impresa e lavoro. E poi fa concorrenza sleale alle altre imprese.

Con un sì cancelliamo tutto ciò. Deterrenza e ristoro salgono perché a chi è stato illegittimamente licenziato deve essere offerto il reintegro nel lavoro. E salgono anche con un sì al secondo referendum, quello per le imprese fino a 15 addetti. Qui, in caso di sentenza di illegittimità del licenziamento, non c’è mai stata la possibilità del reintegro. Ma con un sì, ci spiega la Corte, «l’entità del ristoro viene affidata al prudente apprezzamento del giudice», che terrà conto della gravità dell’illegittimità, del contesto ma anche, aggiunge la Corte, «considerando il congruo effetto deterrente».

Contro la precarietà 

Sul terzo referendum, quello relativo al “lavoro a tempo determinato”, si sentono le cose più strampalate, tipo che un sì ostacolerebbe una forma di lavoro che pure molte e molti, soprattutto giovani, desiderano e che può avvicinare al lavoro. In realtà, il sì ha l’effetto opposto. Infatti, il tempo determinato può ben avere quelle utilità, ma solo se l’impresa, nel ricorrervi, ha chiare e manifeste le «esigenze di natura tecnica, produttiva e organizzativa» per farlo.

Molte imprese già lo fanno. Non lo fanno quelle prive di strategie che prolungano la propria improbabile sopravvivenza usando questa forma di lavoro. Il sì le rimette in concorrenza leale col resto del sistema e dà certezze a chi lavora. Il quarto referendum serve a scoraggiare la pratica delle imprese che, per inefficienza o mancanza di scrupoli, appaltano ad altre imprese la parte più rischiosa del loro lavoro senza curarsi delle garanzie di sicurezza. Il sì ripristina una responsabilità in solido.

Di nuovo, nulla di nuovo per imprese efficienti e corrette che già lo facevano. Ma un contributo a ridurre i rischi sul lavoro e i comportamenti impropri; anche se solo un drastico rafforzamento delle ispezioni può riuscirvi fino in fondo (Parlamento, batti un colpo!).

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Nuovi cittadini 

Risultati importanti e addirittura già quantificabili può dare il quinto sì, che ridurrebbe da 10 a 5 il numero di anni di residenza legale in Italia per chiedere la cittadinanza italiana, fermi restando i requisiti oggi esistenti per tale richiesta. Includendo i minorenni, per cui scatta la cittadinanza se acquisita dai genitori, si calcola che due milioni e mezzo di persone, italiane a tutti gli effetti ma non “cittadine”, lo diverrebbero.

La modifica non risolve tutti i problemi, ma è un passo robusto nella direzione giusta e utile. Giusta se solo pensiamo che i residenti di origine straniera non ancora italiani lavorano e pagano le imposte, ma non hanno tutti i diritti. E quanto sia incomprensibile non essere “italiani” per le masse di bimbe e bimbi che italiano e dialetto parlano quanto o meglio di chi Italiano è da generazioni. Utile all’intero paese, per le maggiori opportunità di lavoro che la cittadinanza darebbe loro.

E perché una quota elevata riguarda la fascia di età dove l’Italia è in tracollo: nel 2023 il 37 per cento delle nuove cittadinanze aveva meno di 19 anni (17 per cento è la corrispondente quota di già italiani). Quando l’Istat chiede a 11-19enni di (sola) cittadinanza straniera cosa intendano per “cittadinanza”, il 30,2 per cento risponde “avere diritti”, il 29 per cento “appartenenza”. Con un sì possiamo costruire proprio quello: appartenenza e diritti.

I cinque referendum rappresentano una carta per le persone di qualunque partito e di qualunque pensiero, di destra o di sinistra, lavoratrici o lavoratori, imprenditrici o imprenditori, per riprendere in mano un pezzo del proprio destino. Non si tratta di cose astratte. Ma della concretezza delle vite nostre e della nostra società. Spendiamoci del tempo. Capiamone i dettagli. Spieghiamoli. Non rinunciamo a contare.

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