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Referendum e diritto del lavoro: cosa cambierebbe in caso di vittoria del Sì


(a cura degli avv. Francesco D’Amora e Federica Giannetti)

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Tra pochi giorni gli italiani saranno chiamati alle urne per esprimersi su cinque quesiti referendari abrogativi. Tre di questi toccano in modo diretto e profondo la disciplina del lavoro subordinato: se approvati, aprirebbero la strada a un cambiamento radicale dell’attuale impianto normativo, riscrivendone interi capitoli.

1. Jobs Act e reintegrazione

Il primo quesito propone l’abrogazione del D.lgs. n. 23/2015 (Jobs Act), che ha introdotto il contratto a tutele crescenti per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015. La riforma ha implementato la c.d. tutela obbligatoria, per i licenziamenti illegittimi, prevedendo il riconoscimento di un’indennità compresa tra 6 e 36 mensilità.

Negli anni, la giurisprudenza ha tuttavia avviato un’opera di progressivo “smantellamento” del Jobs Act, culminata nella sentenza della Corte Costituzionale n. 128/2024, che ha esteso l’applicazione della reintegrazione anche ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (dunque, non più solo a quelli per giusta causa), fondati su un fatto materialmente insussistente.

Se di fatto l’aspetto principale è già stato affrontato dalla giurisprudenza, l’abrogazione integrale del Jobs Act pone interrogativi pratici: tornerà l’obbligo di comunicare i licenziamenti per motivo oggettivo all’Ispettorato del Lavoro, con conseguente riattivazione della procedura conciliativa obbligatoria (e le connesse lungaggini nelle tempistiche conciliative)?

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Inoltre, sarebbe soppressa anche la c.d. offerta conciliativa ex art. 6, D.lgs. n. 23/2015, che consente al datore di corrispondere al lavoratore – entro 60 giorni dal licenziamento – un importo netto parametrato sulla mensilità globale di fatto percepita dal lavoratore in costanza di rapporto ed esente da contribuzione (una mensilità per ogni anno di anzianità di servizio), favorendo un’uscita rapida e non contenziosa?

Per le risposte a tali quesiti, tuttavia, non resta che attendere l’esito referendario.

2. Licenziamenti nelle piccole imprese

Il secondo quesito mira ad abrogare la disciplina che, per le imprese sotto i 15 dipendenti, prevede esclusivamente un tetto massimo (pari a 6 mensilità) all’indennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo.

Se approvato, il giudice potrà stabilire l’importo liberamente, in base a criteri equitativi. Ciò rischia però di colpire duramente le microimprese prive di solide risorse finanziarie, esponendole a risarcimenti sproporzionati rispetto alla loro capacità economica, con impatti negativi su occupazione e continuità aziendale.

In assenza di meccanismi di modulazione o di esenzioni calibrate sul fatturato aziendale, l’applicazione indistinta di tale obbligo rischia infatti di infliggere un duro colpo alla sostenibilità finanziaria delle realtà imprenditoriali minori, con potenziali ricadute anche sull’occupazione e sulla continuità aziendale.

3. Contratti a termine: ritorno all’obbligo di causale

Il terzo quesito riguarda i contratti a tempo determinato. Oggi la causale è richiesta solo per contratti di durata – iniziale o complessiva – superiore a 12 mesi.

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In caso di abrogazione, la causale tornerebbe obbligatoria ab origine, indipendentemente dalla durata del contratto e andrebbe individuata sulla base delle previsioni del CCNL applicato o, in mancanza, della legge.

Tale obbligo generalizzato potrebbe limitare fortemente l’utilizzo del contratto a termine, in particolare per le imprese i cui CCNL applicati prevedano delle causali particolarmente stringenti, contestabili dal lavoratore, che potrebbe sostenerne la natura fittizia e rivendicare la trasformazione del contratto a tempo indeterminato. Ciò rischia di incentivare il ricorso a forme contrattuali alternative, come apprendistato, somministrazione o stage, comportando la definitiva (o, comunque, significativa scomparsa) di tale tipologia contrattuale.



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