I fondi della Politica Agricola Comune trasformano macchinari e strutture, ma anche relazioni umane e percezione stessa delle aree rurali. Il polso della situazione sui territori ce l’hanno (o dovrebbero averla) le Regioni, chiamate a concepire i bandi, erogare fondi e confrontarsi costantemente con aziende e beneficiari. Per AgriNext – Agricoltura in transizione ho intervistato Franco Contarin, direttore dell’AdG Bonifica e Irrigazione del Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale (Feasr) della Regione Veneto. Il suo contributo aiuta a capire come le istituzioni locali gestiscono le risorse dell’Unione europea, quali sono i riscontri dai campi e l’impatto non solo in termini economici, ma anche sociali e di comunità.
Qual è stato l’impatto concreto della scorsa programmazione della Politica agricola comune sulle imprese agricole venete?
Il Programma di Sviluppo Rurale ha finanziato oltre 83mila domande, di cui quasi 70mila progetti sono stati completati: un segno della sua pervasività sul territorio. Con uno stanziamento di circa 1,5 miliardi di euro e l’erogazione del 93% delle risorse, abbiamo visto un flusso annuale di pagamenti che ha oscillato tra i 320 e i 340 milioni di euro, garantendo a migliaia di aziende la possibilità di adeguare strutture, macchinari e metodi produttivi agli obiettivi di sostenibilità climatica e di preservazione del paesaggio.
A che punto è invece il Complemento per lo Sviluppo Rurale 2023-2027?
Siamo “a metà del guado”: gli 817 milioni a disposizione fino al 2029 vedono oggi oltre 12mila domande di aiuto presentate e circa 85 milioni di euro già liquidati. In questa programmazione siamo concentrati soprattutto nel ricambio generazionale, nel contribuire alla riduzione dell’impatto del cambiamento climatico sulle attività agricole. Sosteniamo inoltre l’innovazione tecnologica e l’evoluzione delle pratiche agricole per stare da un lato al passo con i tempi, da un lato per venire incontro alle richieste dei consumatori. Infine utilizziamo le risorse per migliorare le condizioni di vivibilità dei territori rurali più a rischio di abbandono.
In che modo la Pac ha influito sulla vitalità delle aree più fragili, quelle montane?
Abbiamo dedicato il 40% delle risorse complessive a disposizione del Veneto nel periodo 2014-2022 alle aree montane. Si tratta di un record. Circa 170 milioni li abbiamo indirizzati per indennità annuali destinate alle 3.600 aziende che operano in alta quota, circa 110 milioni sono serviti al mantenimento dei prati e dei pascoli, altri 100 milioni sono stati investiti nell’ammodernamento. Soprattutto siamo riusciti a insediare mediamente 300 giovani all’anno come capi azienda e non è un numero scontato, pur essendo il Veneto una regione che dal punto di vista delle opportunità per le impresa agricole offre ancora molto. Va detto che nei contesti montani, senza queste risorse, molte aree cadrebbero in stato di abbandono. Una situazione che poi presenta il conto a tutta la comunità. Questo perché è un terreno non presidiato, non gestito per fare attività agricola, prima o poi se va bene diventa bosco, ma soprattutto rischia di franare. Per quanto riguarda le cause più ampie di questi fenomeni di abbandono, che sono la rarefazione dei servizi all’infanzia, all’istruzione e socio-sanitari in questi contesti, abbiamo operato attraverso i Gruppi di Azione Locale (Gal). Tramite i quattro Gal montani abbiamo riservato 44 milioni di euro a iniziative su misura, dalle azioni per la residenzialità alternativa a progetti di marketing territoriale.
Quali ostacoli avete incontrato in questa fase di avvio 2023-27?
Finora una difficoltà importante deriva da un rafforzamento di alcune rigidità burocratiche da parte della Commissione europea, mentre il Piano strategico nazionale per l’Italia ha richiesto tempi lunghi di negoziazione e modifica dei regolamenti. Non eravamo pronti a iter così estesi e complessi, e i nostri uffici hanno imparato sul campo. L’esperienza adesso l’abbiamo fatta e quindi abbiamo tutti i presupposti per per far meglio negli anni a venire.
Guardando al futuro, teme una fusione tra i fondi Pac e quelli della politica di Coesione?
Ci sono rischi e opportunità: disperdere le risorse in un unico grande strumento significherebbe dover inseguire obiettivi troppo diversi, dal contrasto alla povertà rurale alla difesa idrogeologica. Potrebbe d’altra parte anche favorire interventi integrati, capaci di accoppiare sostegno agricolo e infrastrutturale.
Oltre all’aspetto economico, qual è il valore aggiunto della Pac che avete potuto riscontrare sui territori?
La Pac è spesso valutata per i numeri, ma la nostra esperienza ci dice che c’è anche un valore sociale da prendere in considerazione. Durante la visita organizzata lo scorso anno con gli esperti della Direzione Generale Agricoltura, arrivati appositamente in Veneto da Bruxelles, siamo stati sulle montagne nel Veronese. Lì abbiamo incontrato un anziano pastore che, grazie ai fondi dello Sviluppo Rurale, ha realizzato un piccolo bacino di stoccaggio dell’acqua per irrigare le sue ciliegie. Poi, in un angolo ancora più remoto, abbiamo fatto visita a tre giovani – due di circa quarant’anni e una trentenne – che hanno ristrutturato una malga abbandonata per aprirvi un agri-birrificio. Recuperano orzo e luppolo coltivato da loro amici in pianura, usano l’acqua di una fonte antica ripristinata e hanno accolto noi e un gruppo di cicloturisti olandesi con un pranzo improvvisato e la loro birra artigianale. Quel giorno, in un paese con età media vicina agli 80 anni, abbiamo visto gli occhi degli anziani brillare di speranza. Non si tratta di un fenomeno isolato, ma la testimonianza di come le risorse europee, se gestite con flessibilità e ascolto, possano rigenerare comunità intere.
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