Trump contro Putin, orrore e caos a Gaza, Meloni e i «dazi interni» dell’Ue |
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«Ciò che Vladimir Putin non capisce è che se non fosse stato per me, alla Russia sarebbero già successe molte cose brutte, e intendo MOLTO BRUTTE. Sta giocando col fuoco!» Le maiuscole già fanno capire che quelle parole sono di Donald Trump. Il presidente americano, che poche ore prima si era chiesto se il leader del Cremlino fosse per caso impazzito, è tornato ad attaccarlo. Incassando la risposta, al solito sopra le righe, del vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo Dmitry Medvedev: «Riguardo alle parole di Trump su Putin che “gioca col fuoco” e sulle “cose davvero brutte” che stanno accadendo alla Russia, conosco solo una cosa davvero brutta: la Terza guerra mondiale. Spero che Trump lo capisca!». Da Mosca è arrivata anche la replica alle parole del cancelliere tedesco Friedrich Merz, il quale aveva fatto capire che anche il suo Paese, come già deciso da Usa, Gran Bretagna e Francia, ha revocato le limitazioni alla gittata degli armamenti forniti all’Ucraina perché siano utilizzati in territorio russo. Merz «ha confuso tutti, se non addirittura sé stesso», ha commentato il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. Se Berlino fornirà missili a lungo raggio Taurus, «bruceranno come fiammiferi», la Germania «sprofonderà ulteriormente nella fossa in cui si trova da tempo il regime di Kiev che sostiene», ha minacciato la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova. Al di là della guerra di parole, e di quelle che, purtroppo, continua sul campo (qui il punto militare dell’inviata a Kiev Marta Serafini), da New York la corrispondente Viviana Mazza segnala che dai media americani arrivano segnali contraddittori. Secondo fonti del Wall Street Journal, Trump starebbe meditando nuove sanzioni contro Mosca (le stesse fonti, però, non escludono che, alla fine, potrebbe cambiare idea). Secondo altri, il presidente Usa sarebbe sempre più tentato dall’idea di abbandonare del tutto i negoziati. Nel suo editoriale, Massimo Gaggi scrive che «Trump oggi paga (e fa pagare a tutti i Paesi nel mirino della Russia) la sua illusione di poter mettere fine alle guerre con accordi tra grandi oligarchi del Pianeta nei quali lui pensava di prevalere grazie alla sua imprevedibilità e alla sua capacità di trasformare tutto in trattativa commerciale, senza perdere tempo a leggere dossier sulle cause profonde dei conflitti e ad ascoltare relazioni di diplomatici e intelligence sulle reali forze in campo. Fidandosi solo del suo istinto, il leader americano sembra non capire che dietro l’autoritarismo che lui ammira, Putin ha la spietata razionalità dell’ex funzionario del Kgb, deciso a sfruttare tutti gli spazi che gli si aprono davanti per ridare alla Russia una grandezza imperiale dopo le umiliazioni del crollo dell’Unione Sovietica». L’inferno senza fine di Gaza «Per Gaza chiediamo il rispetto del diritto internazionale umanitario, l’ingresso di aiuti senza restrizioni, l’apertura di corridoi umanitari e, soprattutto, la promozione di un dialogo verso la soluzione “due popoli, due Stati”», ha detto ieri il cardinale Matteo Zuppi, presidente dei vescovi italiani. «Chiediamo che si fermino i bombardamenti e che arrivino gli aiuti necessari per la popolazione. Il diritto umanitario internazionale deve valere sempre, e per tutti. Ma ribadiamo con forza anche la richiesta ad Hamas di rilasciare subito tutti gli ostaggi ancora in vita, e di restituire i corpi di quelli uccisi dopo il barbaro attacco del 7 ottobre 2023 contro Israele» gli ha fatto eco il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin. Non sta andando così. La distribuzione dei primi pacchi alimentari dentro Gaza è diventata un caos che evidentemente nemmeno gli ideatori del sistema avevano messo nel conto. Migliaia di palestinesi si sono accalcati nelle due aree entrate in funzione — quella di Tel as-Sultan, a Rafah, nel Sud della Striscia e quella del Corridoio di Morag, che divide Rafah da Khan Yunis — e hanno preso d’assalto i centri di consegna del cibo distruggendoli. Pacchi alimentari, sedie e tavoli sono stati portati via, la recinzione che doveva limitare la folla spostata dalla sede originaria. Gli uomini della società statunitense ingaggiata per occuparsi della sicurezza sono fuggiti e sono stati sparati colpi in aria per disperdere la folla. In serata la stessa Gaza Humanitarian Foundation (la fondazione sostenuta da Usa e Israele per gestire il piano degli aiuti umanitari con l’aiuto di contractor privati per la sicurezza) ha diffuso una nota in cui non nega gli assalti. C’è stato un momento — dice in sostanza la nota — in cui «il volume di persone arrivato al sito di distribuzione è stato tale che la squadra della Ghf è indietreggiata per permettere a un piccolo numero di gazawi di prendere gli aiuti in modo sicuro e poi disperdersi». Per Ghf il bilancio è, comunque, positivo: «Finora sono stati distribuiti circa 8.000 pacchi di cibo, per un totale di 462.000 pasti». Dopo il direttore esecutivo Jake Wood, anche il capo delle operazioni David Burke si è però dimesso dalla Gaza Humanitarian Foundation. Non è chiara in questo caso la motivazione, mentre Wood aveva abdicato perché — dice — il nuovo piano di distribuzione degli aiuti non è rispettoso dei «principi umanitari di neutralità, imparzialità e indipendenza». La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha definito ieri «abominevoli» le operazioni militari israeliane contro la popolazione civile, come quella che ha fatto strage in una ex scuola di Khan Yunis divenuta rifugio di sfollati. E il cancelliere tedesco Friedrich Merz, in visita ufficiale in Finlandia, si è detto «sconvolto dalla spaventosa sofferenza della popolazione civile» palestinese. Contro il premier israeliano Benjamin Netanyahu torna anche a sfogarsi la rabbia dei familiari degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas (58, dei quali però solo una ventina sarebbero ancora vivi). «Adesso – scrive da Tel Aviv l’inviata Giusi Fasano – la pazienza è finita, prevale l’indignazione. I familiari degli ostaggi sono sempre più infuriati per questo infinito ricominciare daccapo. E sono infuriati anche per le promesse non mantenute. Come la dichiarazione di due giorni fa del premier Benjamin Netanyahu: “Spero di fare un annuncio sui rapiti, oggi o domani”, aveva detto. E poi il suo ufficio aveva precisato che “oggi o domani” era più un modo di dire “presto” che un termine preciso. E così ieri i media del Paese hanno raccolto i commenti dei parenti degli ostaggi: “Si prende gioco di noi”, fa “terrore psicologico”». (Degli orrori di Gaza ha scritto anche Gianluca Mercuri nella nostra Rassegna) Confindustria, Meloni e i «dazi interni» Per 25 mesi di fila, la produzione industriale in Italia ha fatto segnare il segno meno. Inevitabile che, dall’assemblea generale di Confindustria, ieri a Bologna, sia arrivata la richiesta al governo di misure per invertire la tendenza. In particolare, ha spiegato il presidente Emanuele Orsini, «un piano industriale triennale» per l’Italia: 8 miliardi l’anno per tre anni minimo, meglio cinque. Con l’obiettivo di aumentare la crescita del Pil dallo 0,7% previsto quest’anno al 2%. Perché convincere le imprese a investire in una fase di crisi «è come convincere un cassintegrato a comprarsi l’auto nuova». Dal palco dell’assemblea di Bologna, la premier Giorgia Meloni ha risposto che sono già stati individuati 15 miliardi di euro del Pnrr che possono essere rimodulati e indirizzati verso misure per aumentare l’occupazione e la produttività. A queste risorse ne potrebbero essere aggiunte altre, grazie alla riforma dei fondi di coesione Ue del commissario Raffaele Fitto. Fra Orsini e Meloni si è comunque notata una sintonia che, scrive Rita Querzè, «parte da un terreno comune di critica alle politiche europee. Anche ieri il presidente di Confindustria ha chiesto di cancellare lo stop alla produzione auto con motori a scoppio dal 2035. Dal canto suo Meloni ha chiesto di “correggere un approccio ideologico alla transizione energetica“. E, in concreto, di eliminare i dazi interni ai Paesi europei, ben superiori a quelli esistenti all’interno degli Stati Uniti». Da dove arrivino quei dazi interni l’aveva spiegato, a febbraio, in un intervento sul Financial Times, l’ex premier Mario Draghi: «Le barriere interne sono un retaggio di tempi in cui lo Stato nazionale era la cornice naturale per l’azione. Ma ora è chiaro che agire in questo modo non ha portato né benessere agli europei, né finanze pubbliche sane, né tantomeno autonomia nazionale, che è minacciata dalle pressioni dall’estero». In concreto, dettagliano Francesca Basso e Giuliana Ferraino, «sono le barriere normative esistenti tra gli Stati Ue che in passato sono state messe in piedi per proteggere settori della propria economia (prodotti e servizi): regimi fiscali diversi, differenti prezzi dei fattori produttivi, diverse regole per il riconoscimento dei titoli professionali e così via». A commento di quell’intervento di Draghi e dell’Italia, il politologo Luigi Tivelli aveva scritto, sul Riformista: «Questo non è solo il Paese dei balneari che si sono eretti come un sol uomo, trovando molti difensori a destra come a sinistra, a difesa delle loro rendite assurde, o dei tassisti. È il Paese delle troppe congregazioni e corporazioni, oltre che dei troppi ordini professionali chiusi. Da qui derivano i dazi interni, spesso impliciti e da ben pochi percepiti o scovati, che paghiamo. A distinguere i liberaldemocratici dovrebbe essere appunto il concentrarsi sul “mal di concorrenza” e l’individuare terapie adeguate, fatte di liberalizzazioni e di altri aspetti idonei a scardinare le troppe catene corporative». Bene, dunque, che Meloni, pur affezionata alla sovranità nazionale (e, diranno i maligni, agli interessi di alcune delle categorie citate sopra), chieda all’Europa di smantellare in fretta quelle barriere interne che proprio gli egoismi nazionali (di ogni colore) hanno contribuito ad alzare. Del resto, la presidente dell’Europarlamento, Roberta Metsola, anche lei ospite dell’assemblea di Bologna, ha detto: «La nostra bandiera blu con dodici stelle non oscura il vostro tricolore, un’Italia forte e di successo è garanzia di una Europa forte e di successo. Se vogliamo un’Europa più vicina e legittimata è però necessario rafforzare il diritto di iniziativa del Parlamento europeo». E il presidente di Techint Gianfelice Rocca, uno dei grandi nomi dell’industria italiana, intervistato da Querzè aggiunge: «Se vogliamo avere un’Europa in grado di decidere in fretta e in modo efficace, per rispondere a quanto sono in grado di dare gli Stati Uniti da una parte e la Cina dall’altra, allora serve un’integrazione più forte. Metsola ce lo ha detto in modo chiaro, difficile darle torto. La premier Meloni ha evidenziato la necessità di eliminare le barriere interne, come già fatto in precedenza da Mario Draghi. Anche questa è una evidente necessità. Ma per fare tutto questo è necessario superare il diritto di veto e in generale intervenire sulla governance dell’Unione». Insomma, par di capire, più sovranità europea e meno sovranità nazionale. In fondo, è quel che dice anche l’ex ministro Vittorio Colao a Daniele Manca: «Se guardiamo alla tecnologia, l’Ue ha avviato iniziative per finanziare le AIGigaFactory, per portare capitali di rischio alle imprese innovative, per semplificare direttive pesanti per le imprese. Ma gli Stati, i governi in questo momento devono fare di più. Se consideriamo una debolezza non avere infrastrutture nello Spazio, siamo sicuri si debba continuare a difendere con i denti programmi nazionali? Se c’è già l’AI act, ogni Paese europeo davvero deve farsi la sua legge sull’Intelligenza artificiale? (…) Quando le dico che sono ottimista sulla tecnologia in Europa, è perché vedo che dalla sanità ai supercomputer per l’AI, dai chip allo Spazio, dalla robotica alle biotecnologie, abbiamo iniziative pubblico-private che, se implementate da tutti gli Stati membri evitando sovranismi locali, possono farci recuperare terreno». A tenere banco all’assemblea di Bologna, anche il costo dell’energia, che penalizza le imprese italiane. Gli industriali lamentano che gli sconti in bolletta siano finiti soltanto nelle tasche delle piccole imprese artigiane. Inoltre chiedono con forza il «disaccoppiamento»: la possibilità di pagare di meno l’energia prodotta con costi più bassi, cioè quella da fonti rinnovabili. Meloni ha risposto che «uno degli strumenti già disponibili per il disaccoppiamento sono i contratti pluriennali con prezzo fisso concordato tra le parti» (come avviene già spesso in Spagna, ndr). Anche perché «continuare a tamponare spendendo soldi pubblici non può essere la soluzione». «In altre parole – traduce Querzè – difficile ridurre in modo strutturale le bollette privando le casse dello Stato delle entrate legate agli oneri di sistema». «Stiamo anche lavorando — ha aggiunto Meloni — a una analisi del funzionamento del mercato italiano per comprendere se eventuali anomalie nella formazione del prezzo unico nazionale siano all’origine di aumenti ingiustificati».
Da leggere La storia di Andrea, paziente paraplegico di 33 anni tornato a camminare grazie a un neurostimolatore dopo che, quattro anni fa, una grave lesione midollare gli aveva paralizzato le gambe. Un caso clinico «unico al mondo», spiega Ruggiero Corcella, pubblicato su Med-Cell Press da un team multidisciplinare del Mine Lab composto da medici, fisioterapisti e ricercatori del San Raffaele di Milano insieme ai bioingegneri della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. «Non ricordavo — dice emozionato — di essere così alto». L’analisi del corrispondente da Parigi Stefano Montefiori sul fattore Brigitte, la moglie del presidente francese Emmanuel Macron. Il corsivo di Sebastiano Maffettone «Lo sport, il calcio e il senso di una comunità». L’intervento di Luca Diotallevi «Il ruolo e le scelte dei cattolici in politica». Nel podcast Giorno per giorno Viviana Mazza parla delle sanzioni alle quali Donald Trump starebbe pensando per spingere Vladimir Putin ad accettare un cessate il fuoco in Ucraina. Rita Querzè analizza l’intervento della presidente del Consiglio Giorgia Meloni all’Assemblea generale di Confindustria. Michela Rovelli spiega che cosa può fare chi non si è opposto all’utilizzo dei propri dati su Facebook e Instagram per l’addestramento dell’intelligenza artificiale di Meta. Il Caffè di Gramellini Non sappiamo ancora come papa Leone si muoverà tra i corridoi felpati del Vaticano che davano l’orticaria al suo predecessore. Però ha capito in fretta come destreggiarsi tra le passioni degli italiani. Ieri, nel ricevere il Napoli scudettato, ha sentito l’urgenza di smentire di essere tifoso della Roma. «San Pietro fece di peggio con Gesù, e per ben tre volte», lo ha assolto un mio amico cattolico (e romanista). Leone XIV ha scaricato le colpe della presunta falsa notizia sulla stampa (anche questo, in fondo, è un atteggiamento molto italiano), ma che il Papa simpatizzi per la Roma non è certo un’invenzione dei vaticanisti del club «Totti santo subito». Lo hanno rivelato in varie interviste alcuni dei suoi collaboratori più affezionati. E, trattandosi di autorevolissimi monaci, vogliamo credere che non mentissero. Naturalmente non mente neanche Prevost. Si è solo reso conto che l’Italia non è l’America. In America, se il Papa dice di essere tifoso di una certa squadra di basket o di football, tutti gli appassionati di basket o di football lo considereranno parte della loro grande famiglia e lo ameranno per questo. In Italia, se il Papa confessa di apprezzare una squadra di calcio, istantaneamente si attira l’antipatia dei tifosi di tutte le altre e, alla lunga, l’ingratitudine di quelli della sua, che gli imputeranno di non avere fatto abbastanza miracoli al Var. Perché forse non saremo più il Paese della Chiesa, ma di sicuro restiamo quello dei campanili. Grazie per aver letto Prima Ora e buon mercoledì (Questa newsletter è stata chiusa all’1.25) |
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