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Referendum contratti a tempo determinato, sotto 12 mesi causale?


Tra i quesiti del referendum dell’8 e 9 giugno, ve n’è uno che riguarda la causale per i contratti di lavoro a tempo determinato. Ed è per l’esattezza il terzo, dopo quello sui licenziamenti senza giusta causa nelle aziende sopra i 15 dipendenti e le indennità per il caso di licenziamenti illegittimi nelle imprese fino a 15 dipendenti. La materia è stata più volte oggetto di riforma, tant’è che negli anni si è creata parecchia confusione. Oggetto del quesito sono le norme del Jobs Act, entrate in vigore dal marzo del 2015, nonché il decreto Lavoro del 2023 sotto il governo Meloni.

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Causale contratti da Jobs Act a decreto Lavoro

Il Jobs Act eliminò l’obbligo per le imprese di giustificare le assunzioni con contratti a tempo determinato fino a 12 mesi tramite una causale. Il decreto Dignità del 2018 sotto il primo governo Conte reintrodusse tale obbligo, cancellato due anni fa. In pratica, oggi è possibile per un’impresa assumere e rinnovare un contratto di lavoro della durata massima di 12 mesi senza comunicare alcuna causale sulle ragioni per cui non stia assumendo il lavoratore con un contratto a tempo indeterminato.

Superati i 12 mesi, le causali sono obbligatorie e per contratti della durata massima fino a 24 mesi.

Posizioni del “sì” e del “no”

Cosa dicono i sostenitori del “sì”? CGIL, Partito Democratico, Alleanza Sinistra Verdi e Movimento 5 Stelle credono che il ritorno all’obbligo della causale per i contratti a tempo determinato fino a 12 mesi serva per ridurre la precarietà e gli abusi. In molti casi, eccepiscono, le imprese assumono i dipendenti privi di un contratto stabile senza alcuna reale ragione, un modo per tenersi le mani libere nel caso in cui non servissero più dopo un po’ di tempo.

I sostenitori del “no” ribattono che la causale per i contratti a tempo determinato fino a 12 mesi irrigidirebbe il mercato del lavoro e spingerebbe le imprese o a non assumere affatto o ad assumere in nero. Sono di questo parere Azione e Italia Viva, così come la maggioranza di centro-destra schierata per l’astensione (ad eccezione di Noi Moderati, che invita a votare “no”).

Dati ISTAT

E i numeri? Tra l’entrata in vigore del Jobs Act e del decreto Dignità, quando la causale non c’era, i contratti a tempo determinato crebbero di 714.000 unità contro 379.000 contratti a tempo indeterminato creati nello stesso periodo. Da registrare anche un calo di 122.000 lavoratori indipendenti, tra i quali è probabile si celassero finte partite IVA per mascherare rapporti di lavoro subordinati. Nel periodo in cui c’è stato l’obbligo della causale, i contratti a tempo determinato risultano scesi di appena 77.000 unità contro un aumento di 812.000 contratti stabili. Da notare il prosieguo del calo di oltre 200.000 lavoratori indipendenti.

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Infine, dall’ultimo decreto i contratti a tempo determinato sono scesi di 356.000 unità e c’è stato un boom di 1 milione 69 mila contratti stabili. In ripresa i lavoratori indipendenti di 93.000 unità.

Dunque, la presenza o meno della causale non sembra impattare sulla tipologia di assunzione prescelta dalle imprese. E’ la congiuntura economica con la sua influenza sulle aspettative a far optare l’imprenditore per assumere con contratti a tempo o stabili. E ripristinando la causale corriamo il rischio che tra le imprese torni ad affievolirsi la fiducia che negli ultimi anni ha portato al record di occupazione.

Causale contratti non rilevante per tipologia di assunzione

In definitiva, il referendum sulla causale per i contratti a tempo determinato sembra avulso dall’attuale contesto socio-economico. Non sembra che vi sia una situazione di abusi di massa in fase di assunzione, come avvenne in passato. Oggi, le imprese hanno in molti casi il problema di trovare e trattenere il lavoratore, anziché di espellerlo alla prima occasione. In ogni caso, la flessibilità concessa in fase di assunzione per i primi periodi avrebbe contribuito nel tempo a stimolare le assunzioni, facendo svanire la diffidenza degli imprenditori che si registrava quando il mercato del lavoro era più rigido e risultava difficile licenziare un dipendente rivelatosi non all’altezza delle aspettative.

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