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Sui referendum c’è chi tace e chi fa disinformazione: cosa li spinge a contrastare il voto?


di Alberto Piccinini*

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Sta circolando, nei canali ufficiali della Rai, della televisione e della radio, oltre che tra i social, un post istituzionale, dal titolo Referendum 2025 – come si vota, che testualmente dice:

I quesiti referendari chiedono l’abrogazione di alcune norme o parti di esse su:
1. disciplina sui licenziamenti illegittimi;
2. indennità nei licenziamenti nelle piccole imprese;
3. utilizzo dei contratti a termine;
4. salute e sicurezza sul lavoro negli appalti;
5. concessione della cittadinanza italiana.
Chi vota NO esprime la volontà di mantenere le predette norme, chi vota SÌ esprime quella di abrogarle.

L’ambiguità di una simile formulazione non può considerarsi casuale: il cittadino viene informato che se vuole conservare una qualche disciplina sui licenziamenti illegittimi, o le norme a tutela della salute e sicurezza negli appalti, deve votare NO. Al silenzio fa dunque seguito la disinformazione.

Tito Boeri, in un suo recente articolo (La Repubblica, 15 maggio), dopo aver evidenziato, rispetto al quesito sulla cittadinanza, il suo parere favorevole – dal momento che ne beneficeremmo tutti, come contribuenti e/o come attuali o futuri – si scaglia contro gli altri quesiti. Dei primi tre riconosce che l’intento “è quello di proteggere di più i lavoratori dal rischio del licenziamento e di ridurre il precariato”, ma essi sarebbero “sbagliati” in quanto “aumentano l’incertezza sui costi effettivi dei licenziamenti, il che è un male per tutti, lavoratori e imprese”.

Che sia un male per le imprese ci sta, perché quell’incertezza è un deterrente a un uso arbitrario e disinvolto del potere di licenziare (come la stessa Corte costituzionale riconosce), ma l’illustre economista non spende una parola per spiegarci perché lo sia anche per i lavoratori e le lavoratrici. Quanto al quesito che renderebbe “più costoso per le piccole e per le grandi imprese… l’indennizzo concesso ai dipendenti licenziati senza giusta causa”, per le imprese minori, ecco la spiegazione: “Non nascerebbero se condannate a pagare costi così alti in caso di esuberi”. Ancora una volta ci viene proposta la favola secondo la quale le imprese nascono, crescono e prosperano solo se vengono compressi i diritti dei lavoratori, circostanza smentita proprio dall’andamento dell’economia italiana negli ultimi decenni in cui l’auspicato sviluppo non si è visto.

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In compenso, al danno della riduzione delle tutele, si è affiancata la beffa dei salari più bassi d’Europa, che hanno perso quasi il 10% del loro potere di acquisto (come lo stesso Boeri evidenzia nel suo articolo). Insomma si fa fatica ancora ad aprire gli occhi sugli effetti nefasti di una deregulation che, fondata su vane promesse occupazionali, da quasi trent’anni ha depresso le tutele del lavoro senza promuovere affatto lo sviluppo economico.

Quanto al quesito sui contratti a termine che imporrebbe, anche per i primi 12 mesi, che il datore indichi una giustificazione della temporaneità delle sue esigenze, si afferma che l’aumento dei “costi burocratici rischia di essere a detrimento della creazione di lavoro stabile”, quando invece la misura potrebbe e dovrebbe indurre le imprese a sviluppare politiche di reclutamento fondate sulla qualità e stabilità del lavoro.

Infine a Boeri non va bene neanche il quesito sugli infortuni, che introdurrebbe “una norma che non ha precedenti al mondo”, responsabilizzando l’impresa committente al rispetto delle norme antinfortunistiche da parte delle imprese che ricevono lavori in appalto (e di quelle che dalle seconde li ricevono in subappalto, e via andare). Non occorre spendere molte parole per spiegare invece come una disposizione del genere potrebbe imporre condotte virtuose con effetti certo superiori alla soluzione suggerita dall’economista (imporre limiti di velocità più stringenti nei centri urbani per ridurre gli incidenti mortali nel transito da casa a lavoro).

Detto in altre parole, una lettura effettuata con i soli occhiali contabili dell’economia impedisce spesso di valutare le conseguenze virtuose di norme che impongono responsabilità agli operatori economici, contrastano la “concorrenza sleale” e attuano un sano principio del rischio di impresa.

Anche alcuni esponenti della componente moderata del Partito Democratico si sono negli ultimi tempi esposti per contrastare la netta presa di posizione della segretaria Elly Schlein a favore di tutti i quesiti, manifestando la loro intenzione di votare NO, con la motivazione che la condizione del lavoro in Italia “passa dal futuro, non da una sterile resa dei conti col passato”. È comprensibile che chi, a suo tempo, ha condiviso la politica renziana sul lavoro, mostri coerenza nel non rinnegarla; meno comprensibile è che, per farlo, qualcuno voglia presentarla come finalizzata alla tutela del lavoro, citando isolate situazioni in cui la reintegrazione garantita dall’art. 18, pur sussistendo, sarebbe “meno forte” di quella garantita dal Jobs Act.

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Ma se sono davvero loro i paladini dei lavoratori e delle lavoratrici, come si spiega il fatto che sul contratto a tutele crescenti voluto da Renzi è dovuta intervenire la Corte costituzionale con moltissime decisioni che l’hanno parzialmente smantellato? Vero è che solo con il SÌ al primo quesito si potrebbe dare, in continuità con l’intervento della Corte, la “spallata finale” a un progetto di precarizzazione.

Conclusivamente: cosa spinge il governo a barare sull’informazione sui referendum, e tanti progressisti moderati a volerli contrastare? Forse qualcuno ha paura che i cittadini si sveglino, e recandosi in massa a votare possano lanciare un inequivoco segnale di volontà di cambio di rotta?

*avvocato giuslavorista, presidente dell’associazione Comma2 – lavoro è dignità



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