In un tempo segnato da profonde trasformazioni, il lavoro torna al centro del dibattito pubblico non solo come mezzo di sussistenza, ma come espressione profonda dell’identità e della dignità delle persone. È in questa cornice che si inserisce il Manifesto del Buon Lavoro, un documento (presentato dalla Cdo all’ultimo Meeting di Rimini, ndr) che non si limita a riaffermare il valore del lavoro, ma propone una visione rinnovata dell’impresa, dell’economia e della società. L’impresa, secondo questa visione, non è più solo una macchina per produrre utili, ma una comunità di persone, una compagnia orientata da una visione, un’associazione fondata su relazioni. Come le città non sono solo pietre ma comunità di abitanti, come le università non sono solo aule e docenti ma comunità di studenti, così l’impresa è una comunità viva, generativa, capace di rischiare e di prendersi cura. La socialità non è un’aggiunta all’impresa: è la sua essenza. L’impresa è un fatto sociale, un progetto relazionale che prende forma nelle persone che la animano.
Un punto centrale del Manifesto afferma che non può esistere buona impresa senza buon lavoro. Il valore dell’impresa passa attraverso la valorizzazione del lavoro. Questo è particolarmente rilevante oggi, in un contesto segnato da paradossi evidenti: la crescita economica non porta automaticamente sviluppo sociale. Il PIL può aumentare, ma così anche la povertà assoluta. Si è rotto il legame tra lavoro e benessere, tra produzione e dignità. Emblematico è il fenomeno dei working poor, persone che pur lavorando restano sotto la soglia di povertà.
Oggi in Italia oltre 5,7 milioni di persone vivono in povertà assoluta. È un dato allarmante, che rivela quanto sia urgente ripensare la creazione di valore. Non basta generare ricchezza: occorre redistribuirla e, prima ancora, umanizzarla
Cresce l’occupazione, ma non si riduce la povertà. Dopo il Covid, l’economia ha recuperato, ma non la qualità della vita. Oggi in Italia oltre 5,7 milioni di persone vivono in povertà assoluta. È un dato allarmante, che rivela quanto sia urgente ripensare la creazione di valore. Non basta generare ricchezza: occorre redistribuirla e, prima ancora, umanizzarla. Il lavoro non coincide con il reddito. È prima di tutto un bisogno umano di espressione, riconoscimento, partecipazione. È diritto, ma è anche desiderio. Per questo, la valorizzazione del lavoro passa non solo dal compenso, ma anche dal senso. In un’epoca di disaffezione e disimpegno, la vera sfida è generare engagement, coinvolgimento. Secondo Gallup, l’Italia è tra i paesi con il più basso livello di coinvolgimento dei lavoratori al mondo: appena l’8%. È il segnale di una crisi profonda che non si risolve con benefit o premi, ma con un cambiamento culturale e strutturale. Cosa significa, allora, ridare senso al lavoro? Significa non separare più l’idea di opera dall’idea di impresa. Ogni impresa è un’opera quando mette al centro la persona e il lavoro come atto creativo e trasformativo. Hannah Arendt ci aiuta a leggere questa dimensione articolata del lavoro, distinguendo tre forme fondamentali: labor, cioè l’attività necessaria per la sopravvivenza; work, la capacità di trasformare il mondo attraverso le proprie mani e la propria mente, come nel lavoro artigianale; action, l’azione relazionale, pubblica, che lega il nostro fare al destino comune.
Il lavoro ha senso quando tiene insieme questi tre elementi: la concretezza, la trasformazione e la relazione. Quando ne manca anche solo uno, si genera uno svuotamento del significato. E questo svuotamento può portare a conseguenze drammatiche come ci ricorda il libro di Deaton ” Morti per disperazione” dove si racconta come la crescente mortalità negli Usa non sia legata solo alla povertà materiale ma soprattutto alla mancanza di senso, alla solitudine, alla perdita di speranza. Un tema, questo, che interroga direttamente il modo in cui organizziamo il lavoro e l’impresa. È per questo che l’ultimo punto del Manifesto richiama con forza il tema dell’educazione. Non basta la formazione tecnica, serve educazione integrale. Perché non è solo in gioco una competenza, ma una preferenza. Un orientamento valoriale. L’impresa diventa intenzionalmente sociale solo quando sceglie di esserlo, quando si lascia educare e si fa educante. Se il valore si riducesse a mera utilità, basterebbero le competenze. Ma se il valore è anche senso, allora serve una pedagogia del desiderio.
Come si educa al desiderio? Coltivando ambienti di lavoro capaci di ispirare, generare fiducia, creare legami. Servono leadership che nn siano tossiche e che sappiano coinvolgere. Servono spazi fisici e relazionali che favoriscano collaborazione, ascolto, creatività. Servono modelli organizzativi agili, flessibili, capaci di conciliare i tempi della vita con quelli del lavoro. Non può essere una scelta tragica per una madre decidere tra la famiglia e la carriera.
E serve, infine, un nuovo rapporto con il territorio. Le imprese che coltivano relazioni autentiche con la comunità e l’ambiente in cui operano non solo creano valore condiviso, ma sono anche più competitive: coesione è competizione. Il territorio non è solo il luogo dove si restituisce, ma dove si costruisce il senso stesso dell’agire economico. In conclusione, senza educazione non ci può essere buon lavoro. E senza buon lavoro, non c’è buona vita. Il Manifesto del Buon Lavoro ci ricorda che l’economia, per essere davvero umana, deve tornare a farsi domanda di senso, luogo di desiderio, spazio di trasformazione. L’impresa, quando accoglie questa sfida, diventa davvero “opera”.
Foto: Pexels
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