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Se non cresce l’innovazione nell’impresa il lavoro rimane povero


Secondo la “Teoria della crescita” elaborata negli anni Cinquanta dal Premio Nobel per l’economia Robert Solow, l’aumento del Pil può essere ricondotto fondamentalmente a tre fattori: aumento dell’intensità di capitale, aumento dell’occupazione e a un complesso di altre cause designaste con il termine di Produttività Totale dei Fattori (tecnologia, conoscenza e organizzazione del lavoro, ecc.) che si riflettono sull’efficienza complessiva dell’impiego di capitale e di lavoro.

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Al di là delle critiche questa impostazione ha il pregio di essere molto semplice (anche eccessivamente) nel descrivere le dinamiche della crescita economica e per questo è molto usata, perché consente di focalizzare un tema centrale che è quello dell’andamento della produttività dei fattori produttivi e in particolare del principale rappresentato dal lavoro, ossia dalla quantità di produzione realizzata con un dato input di lavoro.

In questi giorni sono stati presentati due documenti importanti sulla situazione del nostro Paese, il Rapporto annuale (2025) dell’Istat e la Relazione annuale della Banca d’Italia, che evidenziano una riduzione della produttività del lavoro lo scorso anno (secondo l’Istat del 2%), a fronte di un incremento medio annuo dello 0,3% del periodo 2014-2024. Se guardiamo al solo settore privato (al netto dell’agricoltura) la Banca d’Italia ci dice che la produttività si è ridotta per il secondo anno, sebbene il valore aggiunto per ora lavorata è rimasto dell’1,6% superiore a quello registrato prima della pandemia.

Questo è successo perché le ore lavorate dagli occupati, che misurano l’intensità del lavoro, sono aumentate più della quantità di prodotto. Sotto molti versi è un effetto della crescita dell’occupazione che stiamo registrando in questo periodo: se aumenta l’input di lavoro e non cresce (almeno non nella stessa misura) l’output prodotto, il rapporto tra prodotto/lavoro si riduce.

È da tempo in corso un dibattito sul “lavoro povero”.

A fronte dei lusinghieri risultati conseguiti sul versante dell’occupazione, con incrementi mai sperimentati nel passato, si fa notare che il livello delle retribuzioni rimane però mediamente modesto, anzi in regresso se considerato al netto dell’inflazione degli anni scorsi, ossia in termini reali.

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Le retribuzioni reali lorde di fatto, che misurano meglio di quelle contrattuali l’effettiva situazione di salari e stipendi, sono aumentate rispetto al 2019 di circa il 13% contro un aumento dei prezzi al consumo del 18%. Un andamento molto diverso (in negativo) del tasso medio annuo di crescita delle retribuzioni delle altre economie con le quali ci confrontiamo.

Le imprese assumono ma non possono aumentare le retribuzioni perché se la produttività del lavoro non cresce sarebbero meno competitive. Messa in questi termini sembra una sorta di circolo vizioso: ulteriori aumenti di occupazione, a parità di altre condizioni, finirebbero per ridurre ancora la produttività del lavoro e quindi non ci sarebbero a maggior ragione spazi di recupero per le retribuzioni.

Ma da che cosa dipende questa situazione? Qui è interessante l’ipotesi sostenuta dalla Banca d’Italia nella Relazione annuale secondo cui: “Il calo (della produttività del lavoro) è da ricondurre in parte a fattori ciclici (cioè rallentamento economico) e in parte alla riduzione relativa del costo del lavoro rispetto a quello del capitale e dei beni intermedi, che ha reso più conveniente l’utilizzo del fattore lavoro da parte delle imprese”.

In altri termini a fronte di una crescita del costo degli investimenti le imprese hanno preferito far fronte alla produzione aumentando l’occupazione piuttosto che programmare un ulteriore processo di investimento. E infatti nel 2024 l’attività di investimento si è ridotta mentre le assunzioni sono continuamente aumentate.

Sotto alcuni aspetti assistiamo a una inversione della storica “tesi conflittuale” di rapporto tra capitalisti e salariati, secondo la quale le imprese aumenterebbero la dotazione di capitale per risparmiare lavoro e questo al fine di aumentare i propri profitti.

Qui invece le imprese assumono persone per risparmiare l’impiego di un capitale che è meno conveniente. E non è detto che lo facciano per aumentare i propri margini, che anzi nello scorso anno si sono contratti in media dello 0.8%.

In altri termini, a differenza del passato, il fattore flessibile è divenuto il lavoro, che rispetto a programmi di investimento più impegnativi, con il sostenimento di costi irrecuperabili, viene considerato più facilmente adattabile stante anche gli attuali livelli retributivi.

Ma tutto questo in prospettiva non può che portare a un ulteriore peggioramento della produttività del lavoro, perché lavoro e capitale sono sempre più fattori complementari: se l’innovazione non si sviluppa il valore aggiunto per addetto non crescerà e se l’aumento della produttività viene considerata antecedente all’incremento retributivo il sistema rimarrà bloccato. Per inciso negli scorsi anni c’è stato questo aumento della produttività del lavoro ma le retribuzioni non ne hanno tratto vantaggio.

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Questo spiega il monito del Governatore della Banca d’Italia che nelle sue Considerazioni finali del 30 maggio scorso, riconoscendo i progressi compiuti dall’Italia, ha sostenuto: “Per garantire un aumento duraturo delle retribuzioni è indispensabile rilanciare la produttività e la crescita attraverso l’innovazione, l’accumulazione di capitale e un’azione pubblica incisiva …(e) … Lo sforzo (nell’aumentare la spesa in ricerca e sviluppo) deve provenire in larga misura dal settore privato, la cui spesa in questo ambito resta contenuta”.

Un messaggio centrale per evitare che oltre ad avere una occupazione povera il Paese si avviti in una spirale di “crescita (sempre più) povera”.



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