Usa e Cina ne concedono di più ma concentrati, noi li disperdiamo
In ogni Paese esiste un Registro nazionale degli aiuti di Stato. E’ sulla base di quei dati che la Banca d’Italia ha potuto fare il punto della situazione riguardo ai sussidi che ogni singolo Paese concede alle proprie imprese e metterli a confronto con quelli concessi dalla Ue in quanto istituzione. Vediamo i numeri.
Primo fatto: gli aiuti di Stato sono cresciuti, in particolare dopo il Covid. Secondo fatto: il Registro nazionale aiuti di Stato conferma che quelli concessi dai singoli Paesi continuano a essere decisamente preponderanti rispetto agli interventi comunitari.
Che cosa è il Registro nazionale degli aiuti di Stato
Nel 2022 i sussidi di vario genere sono stati pari a 70 miliardi, lo 0,43% del Pil dell’Unione Europea. Tuttavia se consideriamo tutti gli aiuti autorizzati dalla Ue con la motivazione dell’emergenza Covid e di quella energetica (quindi anche in ambito non industriale) si arriva addirittura a 228 miliardi, ovvero l’1,43% del Pil, per poi scendere a 187 miliardi nel 2023, l’1,09% del Pil, comunque molto più rispetto al periodo pre-pandemico.
Le autorizzazioni aggiuntive negli ultimi quattro anni sono state ben 900, tutte nella cornice del Temporary Crisis and Transition Framework, lo strumento realizzato, appunto, per rispondere alle esigenze di quel periodo di crisi, tramite il quale Bruxelles ha rilassato i vincoli agli aiuti di Stato e ne ha consentiti di più in vari campi. Per quanto riguarda quelli industriali si tratta dell’efficientamento energetico, della decarbonizzazione dell’industria, dei settori strategici, che hanno visto più investimenti grazie alla maggiore permissività della Commissione, ma anche alla disponibilità delle risorse del Next Generation Eu, il cui uso qui viene considerato aiuto di Stato del singolo Paese poiché la gestione dei fondi non è comunitaria ma statale.
Quanti miliardi spesi in aiuti di Stato
Possiamo confrontare questi numeri con quelli degli investimenti europei in politica industriale, per gli analisti di Banca d’Italia si tratta solo di 24,5 miliardi di euro annui. Si raggiunge questa cifra considerando quella parte dei fondi di Horizon Europe che si occupano appunto di innovazione digitale per l’industria, nonché di biotecnologie, di clima, energia e mobilità, 9,9 miliardi all’anno, e alcune porzioni del variegato bilancio dell’Ue. Rientrano, infatti, i fondi dedicati agli Important Projects of Common European Interest (Ipcei), per esempio nell’idrogeno, nelle batterie, nella microelettronica, 5,3 miliardi annui, e poi parte di quelli di InvestEU e dell’Innovation Fund, a favore della competitività e dell’innovazione nelle imprese, 7,3 miliardi all’anno, e ancora le risorse di Strategic Technologies for Europe Platform (Step) e di Digital Europe, per altri 2,1 miliardi.
Nel complesso si tratta dello 0,14% del Pil europeo, ovvero meno di un terzo di quanto speso dai singoli Paesi per aiuti di Stato in campo industriale, anche senza considerare quelli straordinari autorizzati per la crisi pandemica ed energetica. Si arriva allo 0,15% considerando la spesa annuale dell’European Defence Fund, sulla ricerca industriale in progetti per la difesa.
Il confronto con gli aiuti di Stato americani e cinesi
Come sottolineano gli analisti di Banca d’Italia, si tratta anche di molto meno di quanto gli Usa hanno investito immediatamente dopo la pandemia per rafforzare la competitività del Paese con il Infrastructure Investment and Jobs Act, il CHIPS and Science Act e l’Inflation Reduction Act, l’equivalente dello 0,69% del Pil Usa, senza contare altre iniziative preesistenti. Nell’altro grande competitor mondiale assieme oltre agli Usa, la Cina, i numeri disponibili sono più vecchi, del 2019, e allora, secondo i calcoli degli analisti, gli aiuti di Stato arrivavano persino all’1,73% del Pil.
Non è facile fare confronti, anche perché la selezione delle misure da considerare può essere soggettiva, ma una cosa appare certa agli studiosi: negli Usa sia i settori su cui agire che gli strumenti utilizzati sono pochi e le risorse sono concentrate, mentre al confronto nell’Ue c’è una grande dispersione, con i fondi che vengono divisi in molti rivoli di spesa.
Nell’Unione Europea la parte del leone negli incentivi all’industria continuano quindi a farla gli aiuti di Stato dei Paesi. Questo, secondo gli analisti di Banca d’Italia, rappresenta un problema per un’economia di circa 17 mila miliardi di euro che deve competere con giganti ancora più grandi, ma basandosi sull’iniziativa e sulla gestione di singole economie relativamente piccole, mentre in Usa e Cina gli interventi principali consistono in massici investimenti federali e dello Stato centrale.
La fase dei minori vincoli agli aiuti di Stato dei singoli Paesi sta finendo
Con la fine nel 2025 del Temporary Crisis and Transition Framework, tra l’altro, si ritorna ai vincoli precedenti e si fanno sentire maggiormente i limiti e i pericoli di un’azione frammentata e soprattutto non coordinata. C’è l’ovvio svantaggio delle diseconomie di scala, dovute alle piccole dimensioni dei progetti di incentivo dei singoli Stati, aggravate dalle carenze del mercato dei capitali europeo, ma non solo. Una politica industriale scoordinata basata in gran parte su aiuti di Stato centrati sulle sole esigenze di un determinato Paese, può comportare, per esempio, possibili esternalità negative sugli altri membri dell’Ue. È il caso in cui un incentivo varato in uno va a danneggiare l’industria di un altro, o si attiva una concorrenza fiscale tra Stati, in cui a pagarla sarebbe il welfare di quei Paesi che hanno meno margini di bilancio.
La strada per un aumento della competitività dell’industria europea e per la riduzione della sua dipendenza dal commercio internazionale passa sia da una riallocazione da altri capitoli dei fondi da destinare proprio al settore industriale, sia da una riforma del sistema dei finanziamenti europei, ora eccessivamente complesso, spesso poco trasparente e anch’esso frammentato.
I dati si riferiscono al: 2022-2023
Fonte: Banca d’Italia
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