La giornata mondiale dell’ambiente si celebra il cinque giugno in tutto il mondo. Istituita nel 1972 dalle Nazioni unite, rappresenta la principale iniziativa globale dedicata a diffondere consapevolezza sull’importanza di preservare la qualità ambientale. Obiettivo è permettere a ogni individuo sul Pianeta di vivere una vita dignitosa, all’insegna delle pari opportunità offerte in modo gratuito dalla natura al genere umano.
Quest’anno l’attenzione è focalizzata sulla plastica e l’inquinamento. Dagli anni ’50 abbiamo prodotto 9,2 miliardi di tonnellate di plastica e, di queste, circa sette miliardi sono oggi da considerare rifiuti. Solo nel 2019 la produzione mondiale di plastica ha raggiunto le 460 milioni di tonnellate, più del doppio rispetto al 2000 quando se ne registravano “appena” 234 milioni.
Ogni anno riversiamo nell’ambiente tra gli otto e i 12 milioni di tonnellate di plastica, un numero che potrebbe addirittura triplicare entro la metà del secolo, con buona pace dell’ormai noto avvertimento del 2016 lanciato dalla fondazione Ellen MacArthur: di questo passo avremo più plastica che pesci nei nostri mari (in termini di peso) entro il 2050.
Numeri impressionanti che hanno reso sempre più complessa la gestione dei rifiuti. L’Ocse ricorda che riusciamo a riciclare solo il 9% della plastica che produciamo. Un altro 19% viene incenerito, il 50% finisce in discarica e il 22% elude i sistemi di gestione finendo nei fiumi, sulle spiagge, negli oceani o negli ecosistemi terrestri. Legambiente sottolinea che in Italia per ogni 100 metri di spiaggia si trovano 892 rifiuti lungo le coste: il 77,9% è costituito da plastica.
Il problema fondamentale della plastica risiede nella sua “natura”: si tratta di un materiale derivato dal petrolio, tossico per la salute umana e altamente resistente alla degradazione. Proprio questa resistenza, che ne ha favorito l’adozione su larga scala, rappresenta oggi uno dei principali ostacoli alla riduzione del suo impatto. La seguente infografica di Statista mostra tempi lunghissimi di degradazione: le sostanze chimiche contenute nei mozziconi di sigaretta impiegano circa 10 anni per scomparire, le bottiglie di plastica fino a 450 anni, mentre per le reti da pesca si arriva addirittura a 600 anni.
Tutte le plastiche si consumano e si sgretolano nel tempo, sia che si trovino nelle discariche, sia che vengano impiegate nella produzione di gomma o materiali da imballaggio. Le microplastiche hanno effetti devastanti sulla fauna, sono infatti il peggior nemico di quella marina, tanto da spingere la comunità scientifica a individuare nella “plasticosi” la malattia causata dall’ingestione di polimeri.
Si tratta di una seria minaccia anche per la sicurezza alimentare umana. Qualche anno fa uno studio del Wwf ha stimato che ingeriamo involontariamente circa cinque grammi di plastica a settimana, l’equivalente di una carta di credito. Le microplastiche hanno contaminato un po’ tutto, ma acqua, frutti di mare, birra e sale sono gli alimenti con la presenza maggiore.
Sul tema cresce anche il peso del fast fashion, a livello globale i tessuti sintetici generano tra il 16% e il 35% delle microplastiche negli oceani, mentre si irrobustisce l’evidenza scientifica legata agli effetti sulla salute. Le microplastiche generano infiammazioni, alterazioni cellulari e genotossicità, fenomeni che possono portare a gravi malattie come il cancro, disturbi riproduttivi, problemi respiratori e digestivi, obesità e diabete. Inoltre, contribuiscono all’aumento della resistenza agli antibiotici, una delle sfide sanitarie più critiche a livello mondiale. Uno studio innovativo, pubblicato su Research square, ha scoperto che il nostro cervello è un formidabile contenitore di microplastiche: può arrivare a “ospitare” una quantità 20 volte superiore a quella contenuta in altri organi, come fegato e reni.
Di fronte a dati che raccontano un disastro ambientale annunciato, è urgente trasformare l’allarme in azioni da concretizzare sia attraverso gli accordi negoziati a livello internazionale, sia mediante l’evoluzione della normativa europea e nazionale.
Una guida chiara in tal senso arriva dall’Unep, il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente, che invita i governi a sostenere un accordo globale giuridicamente vincolante contro l’inquinamento da plastica. Nonostante i rallentamenti imposti dalle lobby dell’industria petrolchimica, l’obiettivo dei negoziati avviati due anni fa resta ambizioso: ridurre la produzione globale di plastica, eliminare gradualmente le sostanze chimiche più pericolose e vietare i prodotti usa e getta più inquinanti.
I colloqui riprenderanno il prossimo cinque agosto a Ginevra, ma nel frattempo i Paesi devono avviare politiche nazionali efficaci, basate su tre azioni strategiche individuate anche dal Rapporto 2024 dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS): promuovere il riuso, rafforzare il riciclo e incentivare i meccanismi di sostituzione.
Grazie al sostegno delle politiche pubbliche, con i sistemi di riutilizzo si potrebbe tagliare del 30% la quota di plastica dispersa nell’ambiente entro il 2040. A questo va sommato il potenziale del riciclo che potrebbe contribuire a un ulteriore meno 20%. Tra le altre misure viene sottolineata l’urgenza di eliminare i sussidi ai combustibili fossili, l’adozione di linee guida per il design dei prodotti orientate alla riciclabilità e all’ottimizzazione delle infrastrutture: interventi che permetterebbero di innalzare la quota di plastica riciclabile dal 21% al 50%. Infine, la sostituzione di prodotti in plastica usa e getta – come involucri, bustine e contenitori – con alternative in carta o materiali compostabili potrebbe determinare un’ulteriore riduzione del 17% dell’inquinamento da polimeri. Nel complesso, il passaggio a un’economia circolare garantirebbe risparmi per 1270 miliardi di dollari, considerando sia i costi e sia i ricavi del comparto del riciclo. A questi si aggiungerebbero 3250 miliardi di dollari in termini di esternalità negative evitate, tra cui danni alla salute umana, alla biodiversità e al clima. Sul fronte sociale, la transizione potrebbe generare fino a 700 mila nuovi posti di lavoro entro il 2040, in particolare nei Paesi a basso reddito. L’avvio di questo processo richiederà investimenti consistenti, circa 65 miliardi di dollari all’anno: un dato comunque inferiore ai 113 miliardi di costi annui che comporterebbe mantenere il “business as usual”.
Su questi temi l’Europa ha compiuto diversi passi avanti. Con la direttiva 2019/904 – la direttiva Sup (Single use plastics) – sono stati fissati obiettivi vincolanti, come il divieto di immissione sul mercato per numerosi prodotti in plastica monouso (bastoncini, cannucce, tazze o bicchieri per bevande, contenitori per alimenti), obblighi di design per tappi e coperchi, e tassi di raccolta differenziata per il riciclaggio delle bottiglie di plastica che dovranno toccare il 90% entro il 2029. Senza dimenticare il Regolamento Ue 2025/40 sugli imballaggi entrato in vigore l’11 febbraio 2025 che lancia una sfida sistemica coinvolgendo il ciclo di vita dei materiali. Tra gli obiettivi troviamo almeno il 70% dei rifiuti da imballaggio da riciclare entro il 2030 e obblighi crescenti di contenuto riciclato nelle plastiche.
L’entrata in vigore del regolamento ha riacceso il dibattito sul ruolo di riuso e riciclo. Sono infatti emerse divergenze tra gli Stati membri: i Paesi nordici spingono per modelli fondati sul riuso, mentre altre nazioni, tra cui l’Italia, privilegiano il riciclo, anche in considerazione del peso strategico del settore degli imballaggi nel tessuto industriale nazionale.
È sulla scia di questi provvedimenti che si inserisce la proposta dell’ASviS presentata lo scorso maggio durante il Festival dello Sviluppo Sostenibile. L’Italia nel contesto dell’economia circolare è leader europeo e mostra una significativa capacità di innovazione, non mancano però le criticità nella gestione delle plastiche da imballaggio. Il nostro Paese detiene infatti un poco invidiabile primato nel Mediterraneo, risultando tra i principali responsabili dello sversamento di rifiuti plastici in mare. Secondo le stime più recenti, ogni anno oltre otto miliardi di contenitori per bevande sfuggono ai circuiti di riciclo, alimentando sprechi, perdite economiche e danni ambientali. Lo studio “Il deposito cauzionale, questo sconosciuto” individua nel Deposit return system (Drs) una soluzione concreta ed efficace, già operativa in molti Stati europei. Il meccanismo è semplice: all’acquisto di una bevanda si aggiunge una piccola cauzione, restituita quando il contenitore viene riconsegnato. Un modello virtuoso che in Germania ha portato al recupero del 98% dei contenitori, mentre la Slovacchia, in appena due anni, ha raggiunto il 92%. Per un Paese come l’Italia, ricco di paesaggi e biodiversità ma povero di materie prime, il Drs è strategico: oltre a ridurre in modo significativo i rifiuti, contribuirebbe al conseguimento degli obiettivi europei sui rifiuti, rafforzerebbe la responsabilità del produttore, e imprimerebbe un’accelerazione decisiva verso modelli di consumo e produzione più sostenibili. Il contrasto all’inquinamento passa anche da scelte semplici ma incisive.
Copertina: 123rf
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