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che cosa serve davvero ad aziende e lavoratori


I referendum sul lavoro che si sono appena tenuti hanno mostrato una scarsa partecipazione e il mancato raggiungimento del quorum. Un evento sempre triste, perché partecipare – per tutti i cittadini – è tanto un diritto quanto un dovere.

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Referendum lavoro: che cosa è successo

Dei 5 quesiti 4 referendum si occupavano di lavoro e avevano l’obiettivo di modificare alcune norme introdotte dal Jobs Act in materia di: licenziamenti illegittimi, contratti a tempo determinato e infortuni sul lavoro in ambito di appalti.

Come sappiamo l’affluenza nazionale si è fermata attorno al 30–30,6%, ben al di sotto del quorum del 50% +1 richiesto per validare le consultazioni. È comunque da registrare che nonostante la bassa partecipazione i quattro quesiti sul lavoro – riguardanti licenziamenti, reintegro, precariato e responsabilità infortuni – hanno ottenuto tra l’87% e il 89% di “Sì”.

Che cosa serve all’Italia, alle aziende e alle persone in materia di lavoro

Ma il mancato raggiungimento del quorum è davvero un’occasione mancata per rispondere a delle istanze del mercato del lavoro nel nostro Paese? Per rispondere a questa domanda è necessario avere qualche dato di contesto.

Più mobilità per una crescita retributiva più veloce

Secondo i dati dati Ilo (organizzazione internazionale del lavoro) gli stipendi in Italia tra il 2008 e il 2024 sono scesi quasi del 9%, il peggior dato di tutti i paesi del G20. La causa di questo fenomeno sta nella scarsa produttività, intendendo per questa il valore generato da ogni ora lavorata. La produttività cresce al crescere della dimensione aziendale e dell’innovazione introdotta in azienda. Un tessuto produttivo fatto per la maggior parte da piccole e micro imprese impegnate nel settore dei servizi non è un ambiente favorevole all’aumento della produttività. Le aziende hanno necessità di innovare per rimanere competitive e in un mercato globale dovrebbero essere supportate con investimenti in ricerca e sviluppo, digitale, infrastrutture e formazione. Un mercato del lavoro con più mobilità interna permetterebbe una crescita retributiva più veloce e uno scambio maggiore di competenze. Se si fosse raggiunto il quorum nulla sarebbe cambiato per le aziende in questo ambito.

Uniformità nei diritti dei lavoratori

In questo momento, nel nostro Paese, il numero di contratti a tempo indeterminato è il più alto di sempre: quasi l’86% dei contratti di lavoro è di questo tipo (Fonte: Istat). Le aziende hanno bisogno di trattenere i talenti e gli investimenti nella formazione del personale che entra in azienda sono tali che su contratti meno lunghi può diventare antieconomico. Il referendum sull’apposizione di causale anche nei primi 12 mesi non avrebbe avuto un grosso impatto. Resta fuori da questa valutazione tutto il mondo del sommerso, per cui servono interventi sicuramente più incisivi volti a far sì che quei lavoratori possano contare sui diritti riconosciuti a tutti gli altri.

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Cercare il giusto equilibrio in un mercato del lavoro influenzato dalla crisi demografica

Il numero dei licenziamenti nel 2024 è stato pari a 680.000, il numero più basso degli ultimi venti anni (Fonte: Ministero del Lavoro). Il motivo risiede in una crisi demografica severa che porta le aziende ad avere molta difficoltà nel trovare lavoratori e, una volta trovati, difficilmente si mandano via. Se avesse vinto il sì sull’eliminazione del tetto massimo all’indennità da corrispondere in fase di licenziamento per le aziende più piccole il rischio sarebbe stato quello di appesantire il sistema giudiziario, per cui ogni decisione in tal senso andava valutata e non presa in automatico come adesso. Le aziende sanno bene che questo automatismo permette di risolvere questo genere di controversie molto più velocemente in sede stragiudiziale.

Favorire l’ingresso nel mondo del lavoro senza discriminazione

Secondo i dati Istat, il numero di contratti a tempo determinato è circa il 15% del totale dei rapporti di lavoro, di gran lunga inferiore all’incidenza dello stesso contratto prima dell’introduzione del Jobs Act. Si deve disaggregare il dato per rendersi conto che la maggior parte di contratti a tempo determinato riguarda giovani e donne, le categorie meno forti sul mercato del lavoro. Nel nostro Paese, il tasso di occupazione femminile è del 54% che è ben al di sotto del tasso medio europeo (che si attesta intorno al 67%) e quindi ci sarebbe bisogno di inserire delle norme volte a favorire l’ingresso nel mondo del lavoro e incentivi a contratti stabili. Gli ultimi incentivi introdotti dal Decreto Coesione, per esempio, sono stati resi operativi dopo un anno e con un periodo di validità diverso da quello definito dal decreto, creando nelle aziende molta difficoltà di pianificazione di nuove assunzioni.

Rivedere il ruolo dei sindacati

Con l’entrata in vigore del Decreto Dignità nel 2018 il nostro Paese ha la normativa più stringente in Europa in materia di contratti a tempo determinato. E, come vedevamo al punto precedente, questo contratto è utilizzato meno di quello che si immagina. Il mondo del lavoro è molto cambiato negli ultimi anni e purtroppo le relazioni sindacali fanno fatica a seguire il cambiamento offrendo le risposte che i lavoratori si aspettano, come se ci fosse una difficoltà comunicativa tra lavoratori e sindacati. Delle sane relazioni sindacali portano beneficio a tutti e tre gli attori coinvolti: aziende, lavoratori e sindacati.

Più attenzione alla sicurezza sul lavoro

Secondo i dati Inail, più dell’80% degli infortuni gravi avviene nell’edilizia e di questi più del 70% è nell’ambito del subappalto dove una logica del massimo ribasso porta a risparmiare in sicurezza a discapito dei lavoratori.

Malgrado un numero crescente di infortuni sul lavoro, nel nostro Paese si stima che manchino circa 3.000 ispettori del lavoro. Un aumento dell’organico permetterebbe di svolgere più ispezioni, la copertura di un maggior numero di aziende e più sanzioni, con un effetto deterrente nei confronti di pratiche che espongono i dipendenti a grossi rischi. Il quesito referendario mette luce su un grave problema, la vittoria del sì non avrebbe aiutato a ridurre gli infortuni, ma a garantire maggiore copertura agli infortunati che, ad oggi, possono rivalersi solo sul proprio datore di lavoro diretto.

Luci e ombre dei referendum sul lavoro di giugno 2025

I referendum hanno posto l’attenzione sul mondo del lavoro ma forse lo hanno fatto illuminando aspetti che in questo momento non sono cruciali o che avrebbero bisogno di risposte differenti.

In un mondo che cambia, è necessaria una politica economica che sappia tracciare la strada per guidare lo sviluppo e la competitività e permetta la ridistribuzione dell’occupazione tra settori in declino e settori in evoluzione. In tutto questo, si innestano le politiche migratorie e occupazionali che vanno ripensate per portare nuova linfa nel mercato del lavoro non solo in termini di numero di lavoratori ma anche come capacità di innovare.

    Il quadro, quindi, è molto complesso e affrontare anche solo uno degli aspetti analizzati è un passo avanti nel cercare di sbrogliare questa matassa. Data questa complessità, anche se i quesiti referendari riguardanti il lavoro avessero abrogato le norme che intendevano modificare non avremmo assistito ad uno stravolgimento né ad una modifica sostanziale delle dinamiche in essere nel nostro mercato del lavoro. Anzi, in taluni casi, avremmo anche potuto assistere all’alimentarsi di comportamenti meno trasparenti volti ad arginare un aumento di complessità nelle pratiche di assunzione. Il proliferare di norme e divieti è una caratteristica del nostro Paese. Quello che manca è il controllo dell’efficacia di tali norme.

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    Sarebbe utile utilizzare l’attenzione generata da questo referendum sul mondo del lavoro per ripartire da norme che riescano a creare i presupposti per un mercato del lavoro più ampio, dinamico e quindi più ricco sia per le imprese che per i dipendenti.



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