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Difesa, le industrie del settore verso la svolta: oltre ai finanziamenti pubblici arrivano i fondi di banche e private equity




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Ultim’ora news 11 giugno ore 20


La guerra in Ucraina ha evidenziato la scarsa preparazione delle industrie della difesa occidentali. Il conflitto ha riscritto le regole sul campo di battaglia, non più dominato dagli eserciti ma da una serie di nuove tecnologie, come i droni, l’AI e i missili a lunga gittata. 

Oltre a dover innovare, le imprese del settore faticano a soddisfare le sempre più pressanti richieste di armamenti in arrivo da Kiev e anche dagli Stati europei, che vogliono rimpiazzare gli equipaggiamenti prestati agli ucraini. Un tema sempre più all’ordine del giorno visto che nemmeno la mediazione di Donald Trump è riuscita – finora – a riportare la pace, e di cui si è discusso all’evento Investing in Defence: Mobilising Finance for Europe’s Protection, organizzato da Vitale e Lc Publishing Group.

I limiti della produzione

«Il conflitto in Ucraina ha rivelato una dissonanza drammatica tra la durata e l’intensità della guerra e la bassa preparazione industriale dei Paesi occidentali», spiega Fabrizio Pagani, partner di Vitale, già capo della segreteria tecnica del Mef e sherpa del G20.

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«Il ritmo di consumo di munizioni e armamenti è enorme, mentre le nostre linee produttive sono state drasticamente ridotte dopo la Guerra Fredda. E nelle filiere globali spesso siamo dipendenti da fornitori esteri per microchip, esplosivi e metalli rari, con tempi lunghi e vulnerabilità geopolitiche».  

Le risorse in campo

Lo scontro tra Russia e Ucraina, insomma, ha riportato il focus sull’industria della difesa, che da quando è scoppiato il conflitto ha ricevuto un’attenzione senza precedenti anche in borsa. Il settore è finito di nuovo al centro delle decisioni politiche, diplomatiche e di bilancio dei governi, impegnati a trovare le risorse per finanziare e rilanciare la produzione militare.

La Commissione Europea ha preparato un piano di riarmo da 800 miliardi di euro. Ben 650 miliardi dovrebbero arrivare dalla maggiore flessibilità concessa per quattro anni agli Stati membri, che potranno derogare alle regole del Patto di Stabilità e Crescita senza incorrere in una procedura d’infrazione.

Il resto arriverà dalla prima forma di debito comune dalla pandemia: i 150 miliardi di prestiti di Safe. Anche la Nato è pronta a fare la sua parte e a fine giugno dovrebbe portare la spesa militare dal 2% del pil a circa il 5%.

Le peculiarità della difesa

Ma la pioggia di denaro in arrivo potrebbe non bastare a rilanciare il settore. «La difesa ha un cliente quasi esclusivo, i governi», osserva Pagani. «Ciò implica cicli lunghi di approvazione e alta soggezione al rischio politico, che espongono alle incertezze del finanziamento pubblico».

Un secondo aspetto da considerare è la pianificazione a lungo termine. «I programmi d’armamento richiedono anni, se non decenni, dalla progettazione alla consegna», aggiunge il partner di Vitale. «Quindi il finanziamento deve essere strutturato su cicli più lunghi rispetto ad altri settori industriali».

Un ragionamento che fatica a entrare nella testa dei fondi, che investono con orizzonti di breve termine e mal sopportano ingenti investimenti in ricerca e sviluppo. Ecco le ragioni dietro la storica scarsa appetibilità della difesa per banche e fondi generalisti, legata a rendimenti incerti e tempi lunghi.

Private equity e banche pronti a investire

Almeno finora, perché le necessità e le urgenze imposte dalla geopolitica stanno portando al superamento di queste tendenze. Da un lato crescono le forme di finanziamento alternative, come private equity e venture capital. Dall’altro anche le banche (comprese quelle pubbliche) stanno rivedendo i limiti etici o esg che si erano auto-imposte in passato.

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Alcune restrizioni però rimangono, perché se è vero che la Bei è pronta a triplicare i finanziamenti alle pmi della filiera europea della difesa, la cifra stanziata comunque resta contenuta: 3 miliardi di euro. 

«Si può concludere che in un quadro in evoluzione rimangono alcune restrizioni per gran parte delle istituzioni finanziarie», spiega Pagani. «Ci si domanda se siano opportune in un momento in cui, come ha detto il segretario generale della Nato, Mark Rutte, ‘non prendiamoci in giro, ora siamo tutti sul fianco orientale’». (riproduzione riservata)



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