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I fondi europei che si professano verdi ma investono miliardi nelle fonti fossili


Non è tutto oro ciò che è verde. Anche quando parliamo di finanza. Ammonterebbero a oltre diciotto miliardi di dollari gli investimenti di fondi conformi alle normative europee sulla trasparenza finanziaria sostenibile (Sfdr) in compagnie dell’energia fossile. A rivelarlo è stata un’inchiesta apparsa di recente sul Guardian, secondo cui tra queste imprese rientrerebbero cinque grandi inquinatori, già in vetta alla classifica Carbon Majors del 2023 per la produzione di petrolio e gas. Stiamo parlando di TotalEnergies, Shell, ExxonMobil, Chevron e BP. 

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L’inchiesta del quotidiano britannico è partita dall’analisi delle proprietà nell’ultimo trimestre del 2024 delle società quotate in borsa operanti nel settore dei combustibili fossili – elencate, come anticipato, nel rapporto Carbon Majors – tramite la piattaforma Data & Analytics del London Stock Exchange Group. L’esito di questa analisi ha rivelato che ben 33,5 miliardi di dollari erano detenuti da fondi verdi in trentasette grandi società operanti nel settore dei combustibili fossili.

Il paradosso è che gli investimenti in fonti fossili risultavano in fondi regolamentati dalle norme Sfdr e in particolare dagli articoli 8 e 9, che riguardano rispettivamente la promozione di obiettivi «ambientali o sociali» e gli «investimenti sostenibili». Oltre quattrocentottanta società presentavano questo tipo di investimenti, tra cui azioni di imprese operanti nel mondo fossile.

È fuori discussione che queste ultime possano condividere gli stessi obiettivi climatici internazionali. Si tratterebbe, quindi, dell’ennesimo caso di greenwashing sfuggito alla regolamentazione europea in materia di finanza sostenibile, non ancora caratterizzata da una definizione univoca. 

«L’Unione europea è partita già una decina di anni fa per trovarne una», spiega a Linkiesta Andrea Baranes, autore di diversi libri sulla finanza etica, ex vicepresidente di Banca Etica e attuale membro del Board of directors di Febea (Federazione Europea delle Banche Etiche e Alternative). 

«All’epoca era stato nominato un organo consuntivo senza alcun potere decisionale e sanzionatorio, la cosiddetta Platform of Experts on Sustainable Finance, composta da tecnici e ricercatori provenienti da tutta Europa. Il loro compito era quello di guidare l’Europa nella costruzione di un percorso verso la finanza sostenibile», prosegue Baranes, oggi presidente della Fondazione Culturale Responsabilità Etica, parte della rete di Banca Etica.

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Con il tempo i criteri di riferimento si sono sempre più indeboliti. «Non è raro imbattersi in fondi sostenibili che si dichiarano tali perché investono nel fossile meno della media del mercato – continua Baranes – giocando sull’ambiguità o peggio ancora sulla totale assenza di definizioni».

Sempre il Guardian ha rivelato che a marzo scorso le azioni dei cinque giganti dei combustibili fossili – per un volume di investimento da oltre un miliardo di dollari – si trovavano in fondi che utilizzavano parole chiave green nel loro titolo o si fregiavano dell’etichetta Esg, che invece dovrebbe garantire – per definizione – gli obiettivi ambientali, sociali e di governance. Tra le parole più abusate nei nomi scelti per i fondi di investimento in questione non mancavano certamente “sustainable” e “Esg”

Tra le società di investimento con le maggiori partecipazioni in aziende fossili nei loro fondi verdi compaiono JP Morgan, BlackRock e DWS in Germania. Di fatto, però, le società di investimento non hanno violato le norme Sfdr, che non escludono esplicitamente la partecipazione nelle compagnie del fossile. A tal proposito, la soglia di tolleranza dovrebbe essere pari a zero, perché nessuna di queste compagnie condivide pienamente gli obiettivi di decarbonizzazione fissati dall’Accordo di Parigi e ribaditi dai governi nazionali. 

Lo scorso agosto, l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Esma) ha pubblicato delle linee guida più restrittive per contrastare il greenwashing nei fondi di investimento a torto etichettati come sostenibili. Mentre era fissata al 21 maggio la scadenza entro cui le società di investimento erano chiamate ad adeguarsi alle indicazioni dell’Esma. 

Queste linee guida, inoltre, introducono i fondi «di transizione», in cui i gestori devono dimostrare che gli investimenti seguono un «percorso chiaro e misurabile verso la transizione sociale o ambientale». In base a queste linee guida, le autorità nazionali di regolamentazione finanziaria possono richiedere alle aziende di dichiarare pubblicamente se i loro prodotti sono conformi e, in caso contrario, sanzionare eventuali violazioni della normativa. 

«Lo sforzo che i governi e le società operanti nel settore del fossile stanno mettendo nell’allargare le maglie normative è sintomo dell’attenzione che c’è sul tema. Sempre più risparmiatori vogliono che i propri soldi siano investiti in modo etico. Oggi la cosiddetta finanza mainstream tenta di salire sul carro dei vincitori, cercando di fare finanza etica con il minimo sforzo, così da ottenere il massimo risultato con il benestare dell’Europa», conclude Baranes. 

Come preannunciato dalle Ong Urgewald e Facing Finance, che in una recente ricerca hanno mostrato i coni d’ombra della finanza sostenibile, l’entrata in vigore delle linee guida vede due possibili scenari. 

I fondi Esg che investono nelle aziende dei combustibili fossili, infatti, dovranno o vendere le proprie azioni o rimuovere dai propri nomi i termini legati al concetto di sostenibilità. In quest’ultimo caso, il portafoglio di investimento rimarrebbe “sporco”. Solo adottando la prima ipotesi, invece, si andrebbe verso una maggiore tutela dei consumatori e un impatto climatico positivo.  

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