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Istruzione come motore dell’economia: il ruolo delle aziende


  • Il rapporto Istat 2025 evidenzia come istruzione e cultura siano trascurate nel nostro Paese, frenando il suo sviluppo e comportando ripercussioni negative su occupazione e innovazione.
  • Il dato di fatto è che le donne laureate lavorano di più, che i giovani istruiti guadagnano meglio ma ancora oggi troppi ragazzi abbandonano gli studi. Le laureate non arrivano ai vertici e chi nasce in contesti svantaggiati ha spesso poche possibilità di riscatto.
  • Investire in istruzione non è un costo, ma un investimento produttivo a lungo termine. Perché non esiste progresso senza sapere. E non c’è crescita possibile senza equità. 

Il rapporto Istat 2025 mette nero su bianco una verità spesso ignorata nel dibattito pubblico: istruzione e cultura sono la base per uno sviluppo economico equo, competitivo e sostenibile.

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Ma in Italia la mancanza di visione e di interventi strutturali ha lasciato queste leve decisive in uno stato di trascuratezza, con effetti negativi su occupazione, innovazione, coesione sociale e crescita del Pil.

E se, come dicono i dati, una laurea può cambiare il destino di una persona, allora è lì che si deve agire. Con politiche inclusive, con una visione strategica e con il coraggio di mettere l’educazione al centro dello sviluppo nazionale.

L’intervista al Dott. Fernando Bruno, giornalista e scrittore, storico di formazione che si occupa di diritto, sociologia ed economia dei media da tre decenni, approfondisce l’importanza del ruolo delle aziende quali motori di cultura per valorizzare il capitale umano e promuovere nuovi modelli di leadership in grado di colmare il divario attuale.

Istruzione e cultura: i dati rivelano una crisi strutturale

Il rapporto Istat 2025, presentato in Parlamento il 21 maggio scorso, lancia un segnale d’allarme: l’Italia investe poco e male in istruzione e cultura, due pilastri fondamentali per la crescita economica, la qualità della vita e la coesione sociale. I dati raccolti dall’Istat dimostrano chiaramente che un livello più alto di istruzione corrisponde a un miglioramento in termini di occupazione, reddito e benessere, ma evidenziano anche che il nostro Paese non sta valorizzando questo potenziale.

In Italia, l’istruzione è ancora un motore spento dell’economia: gli investimenti pubblici nel settore sono tra i più bassi dell’Unione europea, sia in termini di spesa per studente che di incidenza sul Pil. Questo disimpegno si riflette in bassi tassi di laurea, abbandono scolastico elevato e forti disuguaglianze territoriali e di genere. L’assenza di politiche strutturali rischia di rendere permanente questa condizione stagnante che colpisce ampi strati della popolazione, soprattutto i giovani e le donne.

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Demografia e istruzione: in un Paese che invecchia, i giovani sono la risorsa dimenticata

Il quadro demografico italiano è sempre più allarmante. L’Italia registra uno dei tassi di natalità più bassi d’Europa, con appena 6,7 nati ogni 1.000 abitanti nel 2023, e una popolazione che invecchia rapidamente, aumentando la pressione sul sistema economico e sociale. A questo si aggiunge un altro segnale preoccupante: oltre un giovane italiano su quattro tra i 25 e i 34 anni, con laurea o titolo di studio universitario, ha lasciato il Paese negli ultimi anni per cercare migliori opportunità all’estero.

Questa fuga di cervelli rappresenta una perdita drammatica di risorse qualificate, formate in Italia ma impiegate altrove. Manca una strategia nazionale per valorizzare e trattenere i giovani talenti, sia attraverso investimenti nell’istruzione e nella ricerca, sia mediante politiche del lavoro stabili, meritocratiche e inclusive. 

L’istruzione, invece di essere considerata un motore strategico per la competitività, continua a essere trattata come una voce marginale. Così facendo, il Paese frena e il divario con innovazione e crescita aumenta.

Occupazione femminile in Italia: un potenziale ignorato che rallenta lo sviluppo

Accanto alla fuga dei giovani, l’Italia continua a sottoutilizzare un’altra risorsa chiave per il rilancio economico: il lavoro femminile. Il tasso di occupazione femminile tra i 20 e i 64 anni si ferma al 57,4%, ben 13 punti percentuali sotto la media UE (70,8%). A ciò si aggiunge un fenomeno che ormai si può definire sistemico: una donna su cinque lascia il lavoro dopo la maternità per assenza di servizi, flessibilità e tutele adeguate.

Eppure, i dati dimostrano che l’istruzione può fare la differenza: tra le donne laureate, l’occupazione raggiunge il 79,3%, riducendo il divario di genere e avvicinandosi alla media europea. Tuttavia, anche per le donne più qualificate, permane il “soffitto di cristallo”: solo il 2,9% degli amministratori delegati in Italia è donna, contro il 7,8% nella media UE, e la loro rappresentanza nei ruoli politici e dirigenziali è ancora fortemente minoritaria.

Ignorare il potenziale occupazionale delle donne significa rinunciare a una leva economica cruciale: secondo l’Ocse, se il tasso di occupazione femminile italiano raggiungesse quello maschile, il Pil potrebbe crescere fino al 12%. In un Paese che invecchia, che perde giovani e che fatica a innovare, non investire nell’inclusione femminile nel mondo del lavoro è una scelta miope e dannosa. Servono politiche attive, formazione continua e welfare moderno per valorizzare il talento femminile e trasformarlo in crescita reale.

Aziende come motori di cultura per valorizzare il capitale umano: il parere di Fernando Bruno

Fernando Bruno è giornalista e scrittore, storico di formazione, si occupa di diritto, sociologia ed economia dei media, ambiti in cui ha lavorato negli ultimi tre decenni.

Abbiamo iniziato la nostra conversazione con alcune considerazioni riguardanti i fattori che hanno portato a un declassamento dell’istruzione e della cultura nel nostro Paese, per riflettere sulla necessità di un intervento deciso da parte delle istituzioni, con politiche del lavoro attive e in grado di trattenere i giovani talenti che invece migrano (per scelta o giocoforza) all’estero.

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In questo contesto però, anche il ruolo delle aziende è decisivo e non più rimandabile. In un’Italia che invecchia, perde risorse umane qualificate e continua a marginalizzare l’occupazione femminile, le imprese possono e devono agire da protagoniste del cambiamento, contribuendo in modo concreto a ridurre le disuguaglianze e a valorizzare il potenziale umano disponibile. Proprio a partire dalla formazione.

Il trend vede un progressivo accantonamento di materie di studio come arte, musica ma anche materie umanistiche e filosofiche, in favore di percorsi più “professionalizzanti” e immediatamente spendibili sul mercato?

“La cultura tecnica e scientifica è irrinunciabile, tuttavia da qualche tempo in Italia, primo in assoluto il Politecnico di Torino, se ricordo bene, l’orientamento accademico di alto livello va nella direzione dell’ibridazione dei saperi e dell’inserimento, anche nei percorsi universitari di carattere tecnico e scientifico, di elementi tipici di una formazione umanistica. Insomma, si fa strada l’idea che formazione umanistica, gli studi filosofici, l’arte e la letteratura costituiscono corredo essenziale anche per una buona formazione scientifica.”

“A riprova di ciò, non solo sempre più formatori e selezionatori del personale, anche di aziende che operano in mercati ad alto tasso tecnico e tecnologico, hanno spesso una formazione di tipo umanistico; ma sempre più il mercato del lavoro si rivolge, per figure professionali di alto profilo, anche ad esperienze e curricula di tipo umanistico. Io credo si sia arrivati alla conclusione che la rigida suddivisione dei saperi, retaggio dello scorso secolo, non è più la soluzione ottimale, e che anche un filosofo può essere un ottimo top manager.”

“Credo che sia interesse delle aziende spingere i giovani verso una formazione di base solida e multidisciplinare, una formazione che garantisca  ad esempio che i giovani studenti impegnati nei tirocini abbiano innanzitutto le competenze  per comprendere un testo complesso (vorrei ricordare che secondo i dati OCSE diffusi a dicembre 2024 – Programme for the International Assessment of Adult Competencies – PIAAC –  in Italia oltre un terzo della popolazione adulta può definirsi “analfabeta funzionale” in quanto incapace di comprendere i contenuti di un testo appena complesso come una polizza, un contratto, l’informativa di un istituto di credito, un modulo INPS o dell’Agenzia delle entrate). Solo poggiando su una solida formazione di base multidisciplinare si può poi proseguire nell’affinamento di un expertise tecnico e specialistico che permetta, ad esempio, di affrontare con successo le sfide imposte dalla stagione di innovazione tecnologica e digitale che stiamo vivendo.”

La scuola fino alla maturità dovrebbe formare l’individuo e non il lavoratore ma, al di là di questo, anche per quanto riguarda le competenze digitali ad esempio, la situazione in Italia è tutt’altro che rosea.

“Ci sono specifici indicatori, a livello comunitario, che misurano la capacità dei Paesi di stare al passo del progresso tecnologico e dei processi di innovazione digitale, e purtroppo l’Italia, nonostante alcuni innegabili progressi negli ultimi anni, è ancora retroguardia nell’Europa. L’indice DESI, ossia il rapporto annuale pubblicato dalla Commissione Europea che monitora i progressi degli Stati membri in materia di sviluppo digitale (alfabetizzazione digitale dei cittadini, digitalizzazione dei processi nelle aziende) ci colloca ancora al 18° posto della classifica della UE a 27. “

“La verità è che se non si forniscono ai ragazzi strumenti efficaci, fin dai primi anni di istruzione si corre il rischio di espandere un sorta di analfabetismo funzionale che impedirà ad una quota crescente di persone di vivere da cittadini consapevoli in una società sempre più complessa. Persino il più importante dei diritti di cittadinanza, ossia la capacità di maturare opinioni, orientamenti e senso critico in piena autonomia è sempre più messa in discussione dalle derive più deteriori della rete (fake news, echo chamber, digital buble), fenomeni tipici dell’informazione via social su cui esiste ormai un’ampia letteratura e che rappresentano un rischio per la libera formazione delle idee e per le stesse istituzioni democratiche. Mi sembra una buona ragione perché istruzione e cultura siano al centro delle politiche di qualsiasi governo.”

In tale contesto, qual è il ruolo che i media possono svolgere? Si può dire che viviamo un processo di involuzione anche nell’offerta di informazione? 

“Assistiamo a fenomeni che non sono né opinabili, né arginabili, ma che vanno conosciuti per provare a ri-orientare i percorsi futuri. Mi riferisco al declino strutturale dei giornali della carta stampata, alla messa in crisi del modello di business dell’editore classico, alle difficoltà ed a una certa perdita di identità della stessa professione giornalistica. L’informazione classica sta perdendo la sfida del mercato a vantaggio di nuovi modelli di offerta legati all’espansione e alla crescita dei media digitali, anche come mezzo di informazione e non più solo di comunicazione interpersonale, come è stato nella prima stagione dei social network. Oggi i grandi aggregatori e le grandi piattaforme globali, e gli stessi social network, si candidano ad essere i nuovi e principali mezzi di informazione per platee sterminate di cittadini del web. È una novità dirompente.”

“È però anche vero che esiste e cresce, sulla rete internet e grazie alla rete internet, anche un’informazione di qualità, spesso gratuita, dotata di canoni di autorevolezza e professionalità. Ne abbiamo numerosi esempi in giro per il mondo, ed anche nel nostro paese. Questa informazione va ricercata, valorizzata e distinta all’interno della sconfinata nuvola informativa prodotta sulla rete. In un contesto in cui è ormai possibile disporre in tempo reale di informazioni e commenti, su qualsiasi minimo fatto o accadimento, la vera sfida per il lettore è nella sua capacità selettiva e di discernimento. E qui torniamo all’argomento iniziale. Disporre di una solida cultura di base costituisce strumento essenziale e irrinunciabile per essere cittadini consapevoli dell’ecosistema digitale.”

Le aziende dunque sono anche motori di cultura ed è importante che di questo ruolo siano consapevoli. Con il loro esempio e le loro scelte possono contribuire a superare stereotipi, promuovere nuovi modelli di leadership e rendere il lavoro più accessibile e sostenibile per tutti.

In un sistema in affanno, le imprese hanno l’opportunità di guidare un cambiamento strutturale, colmando i vuoti lasciati dalle politiche pubbliche. Investire in diversità, giovani, formazione e inclusione non è solo una scelta etica, ma una strategia competitiva vincente, fondamentale per la crescita del Paese e per la sostenibilità del mercato del lavoro.

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