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quali norme restano in vigore dopo il referendum


Il referendum 2025 su lavoro e cittadinanza non ha raggiunto il quorum e le proposte di abrogazione rimangono dunque inattuate. Quali sono le norme in materia di lavoro che restano in vigore?

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L’8 e il 9 giugno italiani e italiane sono stati chiamati alle urne per il nuovo referendum abrogativo. Si è votato su 5 quesiti riguardanti temi di lavoro e cittadinanza.

Ad un giorno di distanza si conoscono ormai i risultati e, come noto, il referendum non ha raggiunto il quorum e pertanto le proposte abrogative sono state bocciate.

Ricordiamo, infatti, che come previsto dalla costituzione affinché un referendum possa essere considerato valido deve votare il 50 per cento +1 della popolazione avente diritto (appunto il quorum). Alla chiusura delle urne, invece, l’affluenza registrata è stata del 30,6 per cento.

Il mancato raggiungimento del quorum lascia, dunque, tutto invariato. Le proposte sono state bocciate e la normativa attualmente in vigore non sarà modificata.

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Quali sono nello specifico le norme in materia di lavoro che sono state oggetto di referendum e che, come detto, continuano a restare in vigore in Italia?

Licenziamento illegittimo: quali norme restano in vigore dopo il referendum?

Il primo dei quesiti in materia di lavoro proponeva di abolire uno dei decreti attuativi del Jobs Act, il n. 23/2015, che disciplina il contratto a tutele crescenti per i licenziamenti illegittimi sostituendo l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970).

Il mancato raggiungimento del quorum significa che la disciplina resta quella attuale, disciplinata dal citato decreto n. 23 del 2015. Cosa significa?

Secondo la normativa oggi in vigore, infatti, chi viene licenziato illegittimamente da un’azienda con più di 15 dipendenti ha diritto soltanto a un indennizzo economico ma non ad essere reintegrato nel posto di lavoro.

La mancata abrogazione di tale norma evita il ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei lavori e quindi la possibilità di rientrare in azienda nel caso in cui il giudice dichiari illegittimo il licenziamento.

Nei casi di licenziamento dichiarato illegittimo ma che non rientra nelle ipotesi di nullità, quindi, la reintegrazione è esclusa, fatta eccezione per il caso in cui il fatto materiale contestato al lavoratore sia manifestamente insussistente.

Il secondo quesito riguardava, invece, le tutele per i lavoratori e le lavoratrici delle imprese con meno di 16 dipendenti e, nello specifico, chiedeva di cancellare il tetto all’indennità nei licenziamenti.

Resta, dunque, in vigore la normativa attuale che prevede, in caso di licenziamento illegittimo, la possibilità per lavoratori e lavoratrici di imprese con meno di 16 dipendenti di ottenere come risarcimento un massimo di 6 mensilità, anche laddove il giudice reputi infondata l’interruzione del rapporto.

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In caso di licenziamento illegittimo, pertanto, il valore dell’indennizzo per il dipendente non potrà essere superiore alla soglia di 6 mensilità.

Contratti a termine e sicurezza sul lavoro: le norme che restano invariate

Il terzo quesito, sempre in tema di lavoro, proponeva di abolire un altro decreto attuativo del Jobs Act nella parte in cui disciplina i contratti a termine e l’utilizzo di causali che li giustificano.

Il quesito puntava a limitare il precariato rendendo obbligatoria l’indicazione di specifiche causali, come ad esempio per lavoro stagionale o sostituzione, per il ricorso al contratto a tempo determinato anche per i primi 12 mesi. In sostanza, il quesito puntava a limitare il ricorso ai contratti a termine solo ai casi previsti dalla contrattazione collettiva o per la sostituzione di lavoratori assenti.

Al contrario, la normativa attuale, che continua a restare in vigore senza cambiamenti, non prevede alcun obbligo di indicare dette causali per i primi 12 mesi di contratto.

Negli altri casi, secondo quanto previsto da ultimo dal decreto lavoro del 2023, i contratti a tempo determinato possono avere una durata superiore ai 12 mesi, ma comunque non superiore a 2 anni:

  • nei casi previsti dai contratti collettivi;
  • in assenza delle previsioni di cui al punto precedente, nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025 (termine prorogato dal DL Milleproroghe 2025), per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti;
  • in sostituzione di altri lavoratori.

Solo in questi casi sarà dunque obbligatorio indicare le causali che giustifichino l’instaurazione del rapporto a termine.

Lo stesso decreto lavoro del 2023 ha poi eliminato l’obbligo di indicare causali per i rinnovi e per le proroghe di contratti fino a 12 mesi.

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Resta pertanto in vigore la normativa attuale, più permissiva dal punto di vista della possibilità di ricorso al contratto a termine, che consente alle imprese di utilizzare questo tipo di contratti senza l’apposizione di causali per i primi 12 mesi e una maggiore flessibilità nelle causali per i contratti tra i 12 e i 24 mesi.

Per quanto riguarda, infine, il quarto ed ultimo quesito in materia di lavoro, quello sulla sicurezza, l’obiettivo del referendum era quello di estendere la responsabilità per gli infortuni in caso di appalto e subappalto.

Nello specifico, si chiedeva l’introduzione della responsabilità per gli infortuni in caso di appalto e subappalto anche per l’impresa committente.

Con il mancato quorum, il quesito è stato bocciato e pertanto resta in vigore la normativa attuale, per cui in caso di infortunio negli appalti la responsabilità non viene estesa anche all’impresa appaltante ma si ritiene responsabile in solido di un incidente sul lavoro solamente l’impresa che esegue direttamente il lavoro.



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