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La mafia ha messo gli occhi sui miliardi del PNRR


Roma, 11 giugno 20205 – Con oltre 200 miliardi di euro destinati dall’Unione Europea al nostro paese, l’Italia è il maggior beneficiario del Next Generation EU, il progetto finanziario europeo per la ripresa post-COVID. Ma invece di favorire il rilancio dell’economia nazionale, gli esperti avvertono che la debolezza dei controlli su questa pioggia di miliardi rischia di spalancare le porte a sprechi, corruzione e – in alcuni casi – infiltrazioni mafiose.

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Una delle debolezze più citate è una modifica alle norme sugli appalti pubblici, pensata inizialmente per velocizzare gli acquisti minori, che consente l’assegnazione diretta di contratti inferiori a 140.000 euro, senza gare aperte.

“Gli affidamenti diretti sono oggettivamente troppi – il 98% di tutti i contratti”, ha dichiarato Giuseppe Busia, presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac), che ha recentemente presentato un rapporto sul tema in Parlamento.

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“C’è un’anomala concentrazione tra i 135.000 e i 140.000 euro – oltre tre volte il numero rispetto al 2021, quando il limite era di 75.000”, ha spiegato, indicando un diffuso ricorso al frazionamento artificioso dei contratti per evitare gare e controlli.

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Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza “ha amplificato tutti i fattori di rischio già noti nella spesa pubblica”, ha affermato Alberto Vannucci, professore dell’Università di Pisa esperto di mafia e corruzione.

Secondo Vannucci, la pressione sui tempi e il sovraccarico burocratico spesso lasciano a un solo funzionario il compito di decidere a chi assegnare milioni.

“Anche i funzionari onesti si trovano esposti – soprattutto in certi contesti dove, per citare una frase celebre, la pressione arriva sotto forma di un’offerta che non si può rifiutare”, ha aggiunto.

Ma il problema non si limita ai meccanismi amministrativi.

“Il modello di controllo è puramente formalistico” e “verifica se la documentazione è in regola – non se i progetti portano reali benefici ai cittadini”, ha detto ancora Vannucci. In questo modo, i fondi pubblici possono finire in mani apparentemente legittime ma in realtà al servizio di criminali, politici e funzionari corrotti.

Niente più armi, solo contabilità

Secondo entrambi gli esperti, la mafia non ricorre più alla violenza: oggi usa il fascino e i bilanci puliti.

“Non sparano più – corrompono”, ha sintetizzato Vannucci. Busia li descrive come “camaleonti” che si mimetizzano perfettamente nel tessuto dell’economia legale – una realtà che sembra passare inosservata anche per lo Stato.

La criminalità organizzata ha seguito il denaro, spingendosi ben oltre i tradizionali territori del Sud per infiltrarsi negli appalti pubblici in tutta Italia. Dal 1991, oltre 400 enti locali – da Nord a Sud – sono stati sciolti per infiltrazioni mafiose. Da fenomeno regionale e violento, le mafie si sono trasformate in reti nazionali, aziendali e silenziosamente integrate nell’apparato statale.

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Il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini ha minimizzato le preoccupazioni sollevate dal rapporto dell’Anac.

“Stiamo cercando di spendere tutto e di spenderlo bene. Ho fiducia negli imprenditori italiani”, ha dichiarato, respingendo l’idea di una corruzione sistemica.

Ma non tutti sono rassicurati. Il deputato di Alleanza Verdi-Sinistra Angelo Bonelli ha definito il sistema degli appalti “sempre più opaco” e ha attribuito alle recenti riforme del governo l’aumento degli affidamenti diretti e dei subappalti. La senatrice del PD Enza Rando ha avvertito che “l’Italia sta tornando indietro”, citando il peggioramento del Paese nei ranking internazionali anticorruzione.

Attualmente l’Italia è prima nell’UE sia per numero di indagini attive sia per entità stimata dei danni legati al Recovery Fund. Secondo i dati della Procura Europea (EPPO), su 307 casi aperti nell’Unione, ben 228 riguardano l’Italia.

Un portavoce della Commissione europea ha dichiarato a Euractiv che le norme UE sugli appalti si applicano solo sopra determinate soglie, e quindi la maggior parte degli affidamenti diretti sfugge al controllo di Bruxelles. Tuttavia, la Commissione si è detta disponibile a ricevere informazioni su eventuali abusi.

“La nostra arma migliore sono i dati”, ha detto Busia, riferendosi al database dei contratti pubblici italiani, che conta 60 milioni di voci e cresce di cinque milioni l’anno. Il suo punto di forza, ha spiegato, è la possibilità di incrociare dati giudiziari, fiscali e previdenziali per individuare anomalie.

Ma i dati non bastano. Busia ha invocato maggiore trasparenza sulla proprietà effettiva delle aziende, regole più severe sul lobbying e standard più elevati per chi gestisce e riceve fondi pubblici.

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“Non esiste l’obbligo legale di dichiarare i titolari effettivi delle imprese”, ha avvertito, sottolineando che conoscere l’identità dei contraenti è fondamentale per prevenire infiltrazioni, collusioni, cartelli e distorsioni della concorrenza.

Un arretramento legislativo

Le recenti riforme introdotte dal governo Meloni hanno ulteriormente indebolito la lotta alla corruzione.

Vannucci ha criticato l’abolizione del reato di abuso d’ufficio e lo svuotamento della normativa sul traffico di influenze, definendoli “strumenti essenziali per i magistrati. Ora non ci sono più”.

Busia ha aggiunto che anche le modifiche al codice degli appalti hanno ridotto le tutele contro i conflitti di interesse, indebolendo le garanzie amministrative che assicuravano integrità nella spesa pubblica.

Entrambi gli esperti hanno sottolineato che il vero pericolo non sono i grandi scandali, ma la corruzione sistemica e silenziosa. “Non credo che vedremo un’ondata di grandi casi”, ha detto Vannucci. “Il vero rischio è che gran parte del danno avvenga in silenzio, sotto traccia”.

E forse ancora peggio è il messaggio che si manda. La corruzione non smette di essere tale solo perché non è più perseguibile.

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“Non si tratta solo di repressione giudiziaria”, ha concluso Vannucci. “Si tratta di decidere se vogliamo che sprechi, collusioni e cattura privata della spesa pubblica diventino la nuova normalità”.

Se l’Italia non cambia rotta, i 200 miliardi del Recovery Fund non serviranno a ricostruire il Paese. Diventeranno invece un esempio da manuale su come gestire un sistema clientelare a cielo aperto.



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