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Il Banchiere di Torino: “La ricchezza? Ecco come si crea” – Torino Cronaca


Camillo Venesio, ceo e direttore generale di Banca del Piemonte, terza generazione al comando. Da quanti anni? La vostra è una lunga storia di famiglia oltre che di banca.

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«Tanti. Dagli inizi degli anni ’80. E ormai in banca è già arrivata la quarta generazione con i miei figli e quelli delle mie sorelle»

Possiamo definirvi l’ultima “vera” banca di Torino? In un panorama di Gruppi internazionali, di acquisizioni e fusioni…
«Sì, noi lavoriamo a Torino, in Piemonte e in Lombardia, ma la nostra è una storia soprattutto locale»

Oltre quarant’anni: come ha visto Torino e la sua economia cambiare dal ponte di comando?

«È cambiata moltissimo. Perché è cambiata prima di tutto la società italiana. E l’economia italiana. Sono cambiate decisamente e con esse è cambiata Torino. Allora Torino era una città impostata sull’automobile, quindi con la grande fabbrica Fiat e con uno straordinario indotto di medie imprese, i fornitori di primo livello, e di piccole e micro imprese ossia i fornitori di queste medie imprese, quindi fornitori di secondo livello. E si era diffusa dal dopoguerra in avanti una cultura straordinaria. Una cultura di saper fare le cose nel settore dell’automotive, come si dice adesso. Sì, qui c’erano tutte le competenze, e ci sono ancora, per costruire un’auto dal disegno, dal concetto dell’auto e di tutto quello che contiene, alla costruzione di tutti i pezzi dell’automobile. Quindi era una città prevalentemente impostata su quello, poi le cose sono cambiate. E la Fiat ha fatto quel che sappiamo, si è integrata in un grande gruppo internazionale. La strategia indubbiamente è stata giusta e Torino ha smesso – io la vedo positivamente – di essere una città quasi esclusivamente legata all’auto e si è sviluppata in tanti altri settori»

Mi incuriosisce che lei dica che tutto sommato può essere una svolta positiva che Torino si sia slegata dall’auto. È controcorrente.

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«Beh, sì, guardi, io prima di tutto sono imprenditore, quindi il bicchiere lo vedo sempre mezzo pieno. Torino ha perso molta forza lavoro legata all’auto, però ha acquisito una diversificazione nei settori, quindi non solo più automotive, ma anche aerospazio. E poi le cose che derivano dall’automotive, cioè la meccanica, la meccatronica, l’informatica con l’evoluzione delle scoperte scientifiche e quindi dell’applicazione industriale»

E il mondo economico?

«Accanto c’è una struttura finanziaria. Il Sanpaolo di Torino, che era comunque una grande banca, è confluito nel più grande gruppo bancario italiano, Intesa Sanpaolo, e delle realtà come noi che sono cresciute pur rimanendo regionali. E poi anche compagnie di assicurazione. La Reale Mutua ha fatto la sua strada, adesso è una delle più grandi compagnie italiane e si sta internazionalizzando. E anche in altri settori come l’alimentare: a Torino Lavazza è l’esponente di un vivacissimo settore industriale alimentare. Quindi se noi guardiamo questo quadro, Torino ha delle belle realtà, ha delle realtà che funzionano, che guadagnano e creano occupazione»

Ma le chiedo brutalmente: a Torino circola ancora il soldo? O si sta impoverendo?

«Sì, a Torino circola ancora il soldo. Non dimentichiamo anche che la città è diventata piuttosto attrattiva anche per il turismo. Il salto l’ha fatto con le Olimpiadi Invernali del 2006, è conosciuta su tutti i circuiti turistici. Ma adesso bisogna fare altre cose. Per esempio, bisogna che arrivino le grandi catene alberghiere a 5 Stelle, per fare ulteriormente un salto»

Qualcosa si sta muovendo. Perché bella è bella, ma…

«Sì qualcosa, ma non tanto. Abbiamo un aeroporto che è abbastanza dinamico. Comunque, detto questo, sì, gira ancora il soldo perché c’è una ricchezza accumulata nei tempi, ma ricordiamoci che la ricchezza deve essere continuamente generata perché sennò non può che ridursi»

In che modo?

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«Per generare la ricchezza ci vogliono le varie attività economiche. Ecco perché io ero e sono profondamente contrario a quello che è stato il motivo dominante della campagna dei 5 Stelle che hanno anche portato a governare la città per 5 anni: la decrescita felice è una stupidaggine, nessuna decrescita può essere felice. Perché la ricchezza, come ho ripetuto più volte pubblicamente, in un modo forse un po’ brutale, non è che si trova sugli alberi o scende con la pioggia, la ricchezza bisogna crearla. E per creare ci vogliono le industrie, ci vogliono i servizi, ci vuole l’occupazione. E poi le cosiddette infrastrutture materiali e immateriali: la giustizia che funzioni bene per fare un esempio. Tutto questo, sono cose che Torino ha, non è che le ha perse. Quelle che gli economisti chiamano specializzazioni complementari e una diversificazione dei diversi settori economici. A Torino queste cose qua ci sono»

E allora cos’è che non ha, visto che in ogni caso cresce meno di altre città a livello di Pil?

«Bisogna solo che tutti insieme ci muoviamo con una visione condivisa. Ma ci riprendiamo, siamo su quella strada anche grazie al PNRR»

Quando dice visione condivisa intende quella della politica o degli imprenditori?

«Ma di tutti, guardi, tutti. Io sono sempre contento che ci sia tra Comune di Torino e Regione Piemonte questa Concordia istituzionale che secondo me è un punto di forza. Questo di tutti, però non è solo una questione politica, cioè la qualità delle istituzioni locali è importante. Ma quando io dico istituzioni locali, intendo anche l’università, i centri di ricerca, le imprese leader, l’università e il politecnico, le banche, le fondazioni, la Camera di Commercio sono tutti questi. Parlo di tutta la società civile»

Abbiamo detto che il soldo gira qui. Ma i torinesi riescono ancora a risparmiare?

«Sì, complessivamente sì. La ripresa fortissima a seguito del Covid, anche grazie a tutti i soldi che sono stati iniettati nell’economia dall’Unione europea e dal governo italiano: questi soldi hanno aiutato la ripresa. Poi si è un po’ infiacchita. Non è che siamo in recessione, c’è una ripresa fiacca. L’immobiliare che ha avuto il boom dopo il 2020 adesso si è un po’ calmato, però complessivamente non va malaccio»

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Guardavo in questi giorni i dati di Bankitalia che analizzava la crescita dei prestiti per famiglie in crescita, poi i tassi legati ai mutui… Che tipo di segnali sono?

«Beh, il fatto che i tassi di interesse si riducano è una cosa positiva per l’economia, perché c’è più possibilità di utilizzare soldi a prestito per investimenti, sia le famiglie che le imprese, le famiglie per i mutui e le imprese per gli investimenti nei diversi settori, quindi questa è sicuramente una cosa positiva. È chiaro che la situazione geopolitica mondiale ed europea non aiuta»

Infatti: dove si va a parare, in questa situazione?

«Le piccole e medie imprese stanno già operando attivamente per trovare nuovi mercati di sbocco e questa è la straordinaria capacità imprenditoriale delle nostre piccole imprese»

Guardando a Oriente? La Cina, gli Emirati Arabi…

«Per esempio, Oriente, ma anche al Nord Africa, ma anche altri paesi europei che fino adesso non abbiamo guardato con particolare attenzione. E quindi c’è questo dinamismo. È chiaro che l’incertezza non aiuta nessuno a decidere»

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Parla della questione dazi? Dove Trump è assolutamente imprevedibile?

«Paradossalmente la guerra è persino più prevedibile di un concetto di dazi come lo sta esponendo Trump. Ma la brutalità dell’amministrazione Trump ha questo di positivo: ha svegliato anche l’Unione Europea. Non è che possiamo avere procedimenti che durano due anni per capire come fare le cose… E basterebbe considerare anche solo il Rapporto Draghi, che è una analisi stupenda, è una sorta di manuale perché dice anche che cosa bisogna fare, nel breve termine. Il fatto è che non possiamo solo pensare a regolamentare il tutto, dobbiamo lasciare gli spiriti d’impresa più liberi possibile di costruire, di innovare, di cambiare le cose. Invece l’Europa negli ultimi anni ha prevalentemente pensato a regolare, a quindi complicare la vita alle imprese, soprattutto alle piccole e medie».

Allude al Green Deal, dove la lobby dell’automotive pensava che desse la spinta per cambiare tutto il mercato?

«Guardi, lì Draghi l’ha detto benissimo, cito: l’Unione europea ha fatto nell’automotive una politica climatica senza una politica industriale. E ha dato una botta terrificante, negativa sull’automotive europeo che era tra i migliori del mondo»

Ma quale può essere oggi una politica industriale? Quella legata al piano di riarmo? Non è che si tratta dello stesso errore?

«Ci ho pensato molto. Alla fine, se vogliamo preservare le straordinarie positività dell’Europa Unita e quindi la pace, la democrazia, la libertà, dobbiamo essere in grado di difenderci da soli. Mi dispiace perché preferirei che non fosse così, che non fosse necessario»

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E dal punto di vista economico finanziario? Al momento la politica dell’Europa non è quella di creare ulteriore debito? Torniamo al discorso debito buono e debito cattivo. L’ultima volta non ha portato proprio benissimo.

«Ora se lo crea perfino la Germania, il suo debito. E per come hanno deciso, fa solo bene all’economia. Gli investimenti in infrastrutture e purtroppo in armamenti sono una cosa assolutamente necessaria, per mantenere un’Europa libera e democratica. La libertà di circolazione delle persone e dei capitali. E dobbiamo essere in grado di difenderci perché abbiamo ai nostri confini dei potenziali aggressori. Parlo con amici, persone dei paesi nordici: e sono preoccupati, molto preoccupati»

Lei, ha ricordato altre volte, ha sempre avuto interesse per il nord Europa. Da giovane la chiamavano Norvegia, vero?

«Perché quando ero all’università facevo dei lunghi viaggi in Nord Europa e Nord America. Mi piacevano molto. Con la Land Rover e la tenda».

Un’epoca più avventurosa?

«Ma devo dire che dirigere una banca negli ultimi vent’anni è stato abbastanza avventuroso, con quello che è successo»

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«A scelta, cioè abbiamo incominciato con la crisi dei subprime che arrivava dai paesi anglosassoni, dal Nord America, poi la crisi dei debiti sovrani. Anni pesantissimi, con la recessione che è seguita. Poi la pandemia, l’inflazione che è partita inaspettatamente, la guerra in Europa. Insomma, abbiamo visto di tutto»

Con tutti questi motivi di difficoltà, però, Banca del Piemonte continua a registrare una crescita notevole (+21,7% di utile nel 2024).

«Siamo sempre cresciuti, la nostra è una crescita sana, prudente, continua. Abbiamo più di 110 anni, siamo solidissimi. Presidiamo i rischi molto bene facendo il nostro mestiere che è di sostenere le famiglie, le piccole medie imprese nei nostri territori. Con grossi investimenti in tecnologia e in innovazione. Poi c’è una cosa a cui tengo molto. Da qualche anno abbiamo riorganizzato tutte le attività benefiche della nostra famiglia. Con la Fondazione Venesio abbiamo fatto anche tante, tante cose interessanti. Pochi giorni fa abbiamo donato un macchinario molto innovativo all’ospedale San Lazzaro, per fare analisi su problemi dermatologici molto seri»

Mi ha detto che presidiate il territorio. Voi quindi non chiudete filiali, giusto?

«No, no, noi abbiamo razionalizzato molti anni fa, adesso no. Adesso casomai cerchiamo di aprirne. Adesso stiamo valutando seriamente se nei prossimi anni aprire nuove filiali perché il nostro modello di business funziona».

Una banca territoriale e una banca tra virgolette di famiglia, così come i crediti cooperativi, può riempire gli spazi che lasciano i grandi gruppi, magari presi solo dalla finanza pura?

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«I grandi gruppi fanno banca a 360 gradi, non è che siano presi dalla finanza pura. Però sottolineo sempre l’importanza della biodiversità anche nel mondo bancario. Perché in Italia abbiamo all’incirca quattro milioni di imprese che hanno meno di 10 dipendenti. Cioè la struttura economica italiana, è questa. In questo contesto c’è bisogno non solo di grandi istituti ma anche di banche piccole e medie. E questo è molto semplicemente la base della strategia che noi scegliamo, perché oltre alla dimensione conta anche l’efficienza ed essere radicati sui territori»

Secondo alcuni rumors, ci sarebbe allo studio un’acquisizione.

«No, questo no».

Quindi voi assolutamente fuori da qualunque risiko bancario

«Risiko… lasciamolo stare. Stiamo guardando, ecco. Guardando alcuni dossier, ma al momento non c’è nulla»

Pensate alla quotazione in Borsa?

«No, no. Abbiamo capitale, capitale in eccedenza per fare quello che desideriamo e anche oltre. Quindi non abbiamo bisogno in questo momento di andare in Borsa. Avessimo mai, in futuro, un progetto per cui servisse aprirci al mercato, lo potremmo valutare. Guardi, l’avevamo valutato quando era un po’ di moda, nel 2006. E poi avevamo detto di no e abbiamo fatto bene perché poi dal 2008 le azioni bancarie erano crollate pesantemente»

Le voglio fare un’ultima domanda. Può anche rispondere in chiave metaforica, anche da appassionato di Shakespeare. Lei ha detto che c’è bisogno di una grande visione tutti insieme. Le hanno mai offerto un posto politico?

«No. Anche perché io non sono un politico, non ho la capacità politica. Io ho un profondo rispetto dei politici, parlo dei politici che interpretano il proprio ruolo in modo serio, quelli di alto livello. E ne conosco diversi. Io sono un manager e un imprenditore. Ha presente la canzone di Bennato? “Io di risposte non ne ho, io faccio solo rock’n’roll”? Ecco, io faccio solo banca, sono capace a fare quello, intendo continuare a fare quello e creare ricchezza e occupazione sui territori. Sono stato il primo presidente del Ceip, il centro estero per l’internazionalizzazione del Piemonte. Ho fatto il mio servizio civile, diciamo così, e ora continuo a dirigere Banca del Piemonte»



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