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START-UP/ La “palestra” per giovani talenti che può aiutare l’Italia


In Italia, le start-up non sono più un fenomeno di nicchia. Oggi fanno parte dell’economia reale. Alcune ce la fanno, altre si fermano, ma tutte portano qualcosa: idee nuove, competenze, voglia di provarci. E in un sistema che spesso fatica a muoversi, sono proprio queste realtà agili, ancora fragili, a tenere viva la domanda di cambiamento.

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Secondo i dati del ministero delle Imprese e del Made in Italy, a dicembre 2023 erano 14.080 le start-up innovative iscritte al Registro delle Imprese. La maggior parte lavora in ambiti ad alto contenuto tecnologico: sviluppo software, consulenza digitale, ricerca applicata, farmaceutico-medicale. Il capitale sociale complessivo supera il miliardo di euro. Parliamo di realtà giovani, ma tutt’altro che marginali.



Il loro peso sull’economia cresce: generano oltre 12,8 miliardi di euro di fatturato e circa 3 miliardi di valore aggiunto. L’occupazione diretta supera i 30.000 posti di lavoro, con picchi significativi tra le ex start-up che sono riuscite a scalare.

Non tutte le start-up sono uguali. Quelle “innovative” hanno una qualifica riconosciuta dalla legge e beneficiano di una serie di vantaggi. Per ottenerla, serve avere meno di 5 anni, un fatturato sotto i 5 milioni, operare su prodotti o servizi tecnologici e innovativi, ed essere in possesso di almeno uno dei seguenti requisiti: personale altamente qualificato, spese in R&S sopra il 15%, oppure titolarità di un brevetto o software registrato.

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Cosa cambia per chi rientra in questa categoria? Accesso al Fondo di Garanzia per le PMI, per ottenere credito più facilmente. Incentivi fiscali agli investitori: detrazione Irpef e deduzione Ires fino al 30%. Deroghe semplificate al diritto societario. Finanziamenti agevolati (come Smart&Start Italia, gestito da Invitalia).

Sono strumenti pensati per facilitare la nascita, ma soprattutto la crescita di imprese ad alto potenziale. Un investimento, anche istituzionale, su chi prova a innovare davvero.

Una dinamica interessante è quella delle Pmi che scelgono di investire in start-up. Lo fanno per diversificare, accedere a nuove tecnologie, testare mercati alternativi. È un modo per innovare dall’interno, senza dover stravolgere la propria struttura.

Secondo un report realizzato da InnovUp e Assolombarda, oltre 5.300 start-up e Pmi innovative sono partecipate da aziende consolidate. Insieme generano quasi il 47% del fatturato complessivo del settore. Un dato che conferma come l’innovazione, per funzionare davvero, abbia bisogno di contaminazione tra realtà nuove e imprese solide.
Un esempio è Scientifica, holding italiana nata nel 2021 che investe in start-up deep tech affiancandole con capitale, competenze verticali e laboratori all’avanguardia. Non solo investitore, ma partner operativo. Un modello che mostra come anche le Pmi strutturate possano spingere l’innovazione sul serio.

Un segnale di maturità arriva anche dalle operazioni di acquisizione. Tra il 2012 e il 2023, in Italia si sono registrate 395 operazioni di M&A su start-up, con un picco di 110 nel solo 2023.

Alcuni esempi? Bending Spoons, tra le scale-up italiane più forti, ha acquisito Evernote e recentemente anche WeTransfer, portando un brand italiano su un mercato internazionale.
Namirial, realtà specializzata in digital trust, è stata acquisita da Bain Capital per oltre un miliardo. Non solo exit, ma conferme che il sistema italiano dell’innovazione può generare realtà solide, appetibili anche all’estero.

C’è un altro aspetto, meno citato ma forse il più importante. Le start-up sono spesso il primo vero spazio in cui molti giovani possono mettersi alla prova. Si parte da un’idea, si costruisce un team, si cerca un modello. È un crash test continuo con il mercato, con le risorse (quasi mai sufficienti), con la realtà. E questa esperienza – anche quando non porta al successo – forma.

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Chi ci prova impara a presentare un progetto, a gestire persone, a stare dentro i numeri. Impara che fare impresa non è solo visione, ma responsabilità. Non a caso, molti fondatori di nuove imprese sono ex startupper che hanno fatto esperienza in contesti precedenti.

In un Paese che fatica a trattenere i suoi talenti, le start-up possono diventare una leva concreta per far restare i più capaci, offrendo contesti agili, dinamici, dove sperimentare ha ancora senso.

Le start-up non sono tutte destinate a diventare aziende da prima pagina. Ma tutte hanno un valore. Perché generano esperienza, allenano al cambiamento, fanno da ponte tra idea e realtà. L’Italia, oggi, ha bisogno anche di questo: di luoghi dove chi ha qualcosa da dire possa provarci davvero. E magari restare.

Perché in fondo è questo che fa crescere un sistema: non solo le aziende che vincono, ma anche tutte quelle che hanno avuto il coraggio di iniziare.

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