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Italia a marcia indietro – Contropiano


Un’analisi spietata del “modello economico” italiano ed europeo. Ma fatta su un giornale economico, non su un opuscolo “antagonista”. La miseria profonda del capitalismo nazionale emerge ormai senza alcun velo.

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Non c’è molto da aggiungere, anche se crediamo che il risultato dei referendum sul jobs act – anche se non cambierebbero la situazione dei salari, nell’immediato – potrebbero diventare una spinta politica per rimuovere la “passività” dei lavoratori, che sembrano da anni tramortiti da una condizione di vita e reddituale ai limiti della sopravvivenza.

Buona lettura. E tenete d’occhio i corsivi…

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Prima i numeri, che già da soli dicono tutto: perché questo è il risultato di mezzo secolo di polemiche sull’”alto costo del lavoro” in Italia, il problema che veniva sbandierato come la fonte di tutti i mali.

A valori concatenati con anno di riferimento 2020, e quindi sterilizzando la dinamica dei prezzi [facendo comunque finta che l’inflazione reale, per i redditi bassi, sia davvero quella ufficiale registrata dall’Istat, ndr], la spesa per consumi finali delle famiglie italiane era stata nel 2007 di 1.111 miliardi di euro, un livello mai registrato successivamente. Diciassette anni dopo, nel 2024, è stata ancora di appena 1.085 miliardi, dunque inferiore del 2%.

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La spesa per consumi finali delle P.A. è rimasta inchiodata per via della ultradecennale questione del debito insostenibile, passando da 364 miliardi del 2007 ai 363 miliardi di euro del 2024 [anche qui, probabilmente, lo scarto rispetto all’inflazione ufficiale è sensibilmente maggiore, ndr].

Gli investimenti fissi netti, quelli che si aggiungono al rimpiazzo degli esistenti, sono crollati: passando dai +99 miliardi del 2007 ad un valore negativo che è stato registrato continuamente dal 2012 al 2020. Il che significa che per otto anni di fila è stata ridotta la dotazione degli investimenti fissi esistenti per l’importo cumulato pazzesco di 185 miliardi.

Ancora nel 2023 e 2024, nonostante il contributo del PNRR, gli investimenti netti sono stati ancora inferiori a quelli del 2007, rispettivamente pari a 85 ed a 83 miliardi.

Le esportazioni di beni e servizi (fob) sono invece passate dai 492 miliardi del 2007 ai 605 miliardi del 2024, con un incremento di 113 miliardi, ovvero del 23% rispetto al dato iniziale.

Sono dunque referendum praticamente inutili, quelli che si svolgeranno ai primi di giugno con l’obiettivo ampiamente condivisibile di difendere i lavoratori sotto il profilo legale, eliminando da una parte le normative che a partire dal Job Act hanno ridotto le tutele reali nei confronti dei licenziamenti illegittimi, e dall’altra quelle che hanno reso via via sempre più semplici le assunzioni temporanee.

Anche se venissero approvati e conseguentemente abrogate le normative messe in discussione, i risultati concreti sarebbero pressoché nulli sia in termini di maggiore occupazione che di salari più elevati. La possibilità di aumentarli dipende dall’incremento della produttività del lavoro: cioè dal fatto di essere stati capaci di “produrre di più” per ogni ora lavorata.

Ma, in Italia, questa dinamica è stagnante per una ragione precisa: le imprese non investono per produrre di più, o per produrre merci o servizi di migliore qualità da vendere a prezzi superiori, il che consentirebbero loro un aumento dei margini di ricavo e di conseguenza un aumento dei salari. Per vendere, puntano sulla competitività, e l’unico fattore di costo su cui possono agire liberamente è il salario.

La ragione di questo disastro sta nel modello economico, profondamente sbagliato, che è stato adottato in Italia da diciassette anni a questa parte, a partire dalla Grande Crisi Finanziaria americana del 2008: la deflazione dei salari è divenuta il modello di riferimento di un Paese in cui mancano drammaticamente gli investimenti netti, quelli che accrescono o migliorano la quantità e la qualità del prodotto.

Le imprese italiane si limitano a rimpiazzare gli impianti ed i macchinari esistenti per rendere più efficiente la produzione, con una conseguenza pericolosissima: visto che la domanda interna è stagnante per via dei salari che non crescono, devono puntare tutto sulle esportazioni, e cosí la tenuta di interi comparti produttivi, dall’alimentare alla meccanica, dipende dalla domanda estera.

Con la crisi del modello tedesco e con la guerra dei dazi in corso, c’è ben poco da stare tranquilli. Con i costi elevati del credito bancario e dell’energia, c’è da tirare ancora la cintura.

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Come se tutto questo non bastasse, l’attivo commerciale strutturale dell’Italia viene reinvestito in asset finanziari all’estero, con impieghi diretti o di portafoglio: per la prima volta nella Storia, siamo diventati creditori netti ed esportatori di capitali. Finanziamo dunque le economie dei nostri competitori.

Ecco perché l’Italia non cresce, anzi si è profondamente impoverita da diciassette anni a questa parte.

Ecco perché i salari italiani sono bassi: più che merci e servizi, esportiamo lavoro a basso costo.

* da Money.it

– © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO


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