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La vendetta dei mediocri contro il merito


La mediocrità, che è la madre della frustrazione, rappresenta il vero motore della società occidentale in questo primo quarto di secolo. Non la povertà né la fede né tantomeno l’amore – figurarsi – solo e soltanto la mediocrità.

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E’ questa la chiave di lettura più feconda nel valutare l’onda lunga del populismo, che nasce dalla frattura del Novecento morente, con le sue ideologie, e lo squassamento delle categorie politiche, economiche e sociali su cui si era basato il nostro stile di vita dalla fine della seconda guerra mondiale al crollo del muro. Da lì in avanti, maionese impazzita. E si sbaglia a dire che sia un fenomeno di destra, perché nel populismo sguazza tanta di quella sinistra o post sinistra o para sinistra che manco ce la immaginiamo. E’ un fenomeno globale. E per questo interessante, per quanto avvilente.

La decisione del presidente degli Stati Uniti di revocare all’università di Harvard l’autorizzazione al reclutamento di studenti stranieri, che ha esercitato negli ultimi settant’anni, sostenendo che quel campus è diventato un pericoloso centro di propaganda antiamericana e antisemita, è figlio proprio di questa logica. Alla quale si associa il taglio radicale dei finanziamenti alle università e alle agenzie che si occupano a loro volta di sostenere economicamente la ricerca. Ora, è vero che da tempo negli atenei americani, e anche in quelli europei e italiani, si è diffusa una dittaturella strisciante, demagogica e censoria basata su una culturetta woke politicamente corretta talmente settaria, talmente tribale, talmente cretina e imbevuta di un moralismo bacchettone ridicolo e violento da aver esasperato chiunque abbia a cuore il rispetto della storia e la libertà del lavoro intellettuale. Ma nonostante questo la ricetta di Trump è sbagliata nel merito, autolesionista nel lungo periodo e demenziale da un punto di vista etico.

Non a caso, nei primi tre mesi di quest’anno i ricercatori americani che hanno fatto domanda di impiego all’estero sono aumentati di un terzo e quelli stranieri che hanno chiesto di lavorare negli Stati uniti sono invece diminuiti di un quarto. Studenti, professori e ricercatori appena possono tentano di scappare dalla terra che invece storicamente aveva sempre fatto dell’accoglienza delle teste libere, coraggiose e talentuose la propria ragione sociale. E le basi della sua ricchezza. Un dazio sulla cultura, insomma, quello di Trump, che è addirittura più stupido di quello sulle merci. Anche perché chiunque non abbia portato il cervello all’ammasso sa che il merito, parola così meravigliosamente anglosassone e così assolutamente bistrattata in Italia, è quello che fa la differenza tra un paese che funziona e progetta il futuro e uno che sprofonda nella palude e sistema solo gli amici degli amici. E lo dimostra il fatto che la metà delle start up da un miliardo di dollari sono state fondate da immigrati, arrivati negli Usa per ragioni di studio. Più chiaro di così.

Quindi il tema da porre è il seguente. O Trump è un perfetto imbecille che non conosce neanche i principi economici del paese che governa o è talmente accecato dall’odio anti liberal da trasformare la sua politica in una mera vendetta personale contro tutto quello che lo ha osteggiato in campagna elettorale. Oppure c’è sotto qualcosa di più profondo. E di più pericoloso. E cioè la cognizione epidermica che il suo elettorato, la sua gente, il suo popolo vuole esattamente questo. Quei milioni di americani, ma anche di europei e di italiani, molto spesso di estrazione economico sociale bassa o molto bassa, non odiano i ricchi, i monopolisti, i padroni, gli speculatori, gli evasori, come dovrebbe essere logico, ma i competenti. Odiano le élite.

Lì sotto spurga tutta una filosofia devastante dell’uno vale uno, che pure qui ha spostato valanghe di voti in passato e ne sposta tante anche adesso, dell’elogio dell’incompetenza, dell’ignoranza, dell’esibizione plateale del non sapere niente, del non studiare niente, del non voler fare niente, dell’inutilità della scuola e dell’università, appunto, della lettura, della scrittura, della cultura, roba da topi di biblioteca, da professorini, da parastatali, da sfigati, tutta una retorica melmosa e provinciale contro le élite politiche, culturali, artistiche e scientifiche – basti pensare agli anni folli del Covid – perché sono “loro” che ci nascondono la verità, sono “loro” che la camuffano, sono “loro” che la plagiano, che complottano, che ci raggirano, che ci fregano, che ci derubano, noi gente vera, noi gente semplice, noi gente pulita, noi popolo. Che pena.

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E senza che nessuno abbia più il coraggio di dire che tutti possono scaricare un sacco di farina (ed è un lavoro dignitosissimo: guai a chi scherza su questo) mentre pochi possono operare un cuore o un cervello, tutti possono schiacciare i bottoni della cassa (e anche questo è un lavoro dignitosissimo, senza alcuna ironia) mentre pochi possono insegnare greco o fisica nucleare, tutti possono tagliare un pezzo di compensato (dignitosissimo pure lui) mentre pochi possono costruire un tavolo o un divano artigianale a regola d’arte. Non è così? Non è così, forse? Non ci sono le differenze nella vita e nella società? Dove siamo, nella Bulgaria degli anni Cinquanta? In un kolchoz della Bielorussia? In un’assemblea studentesca del Sessantotto? L’unica uguaglianza è quella delle basi di partenza. Tutti, anche il figlio della serva, anche lo scappato di casa, anche il poveraccio sbarcato a Lampedusa devono avere la chance di poter studiare e imparare e lavorare e avere successo, se siamo in uno Stato serio e non nella repubblica delle banane. Poi c’è la gara. E nella gara, se la gara non è truccata, vincono i migliori.

Perseguitare i migliori è la tipica pulsione dei mediocri che governa gli uffici, le aziende e i negozi (e le redazioni dei giornali, che rappresentano la metafora assoluta della mediocrità). Quella di Trump è solo la pulsione di un mediocre che ce l’ha fatta.

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