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Il più potente contro il più ricco? È il “crony capitalism”, bellezza


Il match del secolo è appena cominciato e durerà ben più di cinque set. Donald Trump ed Elon Musk erano destinati a incontrarsi, ad allearsi e poi a diventare acerrimi nemici. Il che, ovviamente, non impedirà loro di allearsi di nuovo, se fosse necessario. È il crony capitalism.

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Il capitalismo degli amici, degli oligarchi, dei parassiti. La ricchezza non passa dalle invenzioni o dalle scoperte ma dalla vicinanza al potere: Putin insegna. Musk, quando non è sotto l’influenza di varie sostanze allucinogene, dovrebbe ricordare che gli oligarchi russi hanno una certa tendenza a finire male non appena emettono anche un solo sospiro sgradito al Cremlino.

Tra gli innumerevoli insulti scambiati tra i due mega narcisisti, due sembrano particolarmente rilevanti: Trump ha detto che per diminuire il deficit del governo federale si potrebbe iniziare dal cancellare le centinaia di contratti sottoscritti con Musk. Il sudafricano proprietario della Tesla ha risposto: «Trump sarà presidente ancora per tre anni e mezzo, io sarò sulla piazza per altri 40» (il che è opinabile, visto il suo stile di vita poco sano, ma tecnicamente possibile: nel 2065 Musk avrebbe 94 anni).

La dichiarazione di Trump sembra un esempio da manuale del capitalismo degli amici fedeli, che esiste solo fino a quando restano appunto fedeli. Per la precisione si tratta di un sistema economico in cui il successo delle imprese dipende in modo determinante dai rapporti privilegiati con il potere politico: il governo favorisce alcuni imprenditori attraverso concessioni, licenze, agevolazioni fiscali, accesso privilegiato al credito, protezione dalla concorrenza e altre forme di sostegno, sempre in cambio di qualcosa: per esempio, i 277 milioni di dollari versati da Musk alla campagna elettorale di Trump nel 2024. Il bizzarro sudafricano si è del resto vantato di aver fatto eleggere presidente The Donald e di aver favorito anche la risicata vittoria dei repubblicani alla Camera. In Italia sarebbe una confessione di voto di scambio, che è un reato, ma apparentemente laggiù nessuno bada a queste piccolezze.

Nel 2023, l’Economist collocava gli Stati Uniti al 26° posto nel suo Crony Capitalism Index, sostenendo che erano relativamente meno esposti alla corruzione rispetto ad altri grandi paesi come la Russia (in testa alla classifica) oppure a paesi piccoli ma dove l’intreccio stato-imprese rimane particolarmente forte (Repubblica Ceca e Singapore). Questo giudizio particolarmente benevolo sembra oggi del tutto superato: siamo nell’era in cui non solo Musk ma anche altri oligarchi come Jeff Bezos e Mark Zuckerberg si sono prosternati ai piedi di Trump. Il presidente fellone non ha esitato a usare i poteri che ha, e anche quelli che non ha, per estorcere sostegno e quattrini a chiunque potesse fornirgliene.

Un esempio significativo è quello dell’intero comparto delle criptovalute, che hanno sostenuto la rielezione di Trump ottenendone in cambio la rinuncia a qualsiasi forma di regolamentazione. Il che, ovviamente, avvantaggia direttamente la famiglia: Donald, Melania e i figli adulti possiedono e gestiscono direttamente criptovalute e piattaforme crypto, tra cui $WLFI, stablecoin USD1, il memecoin $TRUMP e altre. Bilancio dal 20 gennaio ad oggi: ricavi stimati in oltre 1 miliardo di dollari.

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Il folklore degli scambi di insulti via social media rischia di nascondere la realtà sottostante: Trump e Musk competono per denaro e potere in un regime in cui la corruzione è sistemica, non occasionale. I tecnofeudatari di Silicon Valley, come li definisce Yanis Varoufakis, possono arricchirsi solo in assenza di regolamentazioni appropriate, regolamentazioni che non vengono emanate perché il Congresso e la Corte Suprema sono largamente nelle loro mani.

Nella sceneggiata degli ultimi giorni Musk recita il ruolo del feudatario ribelle, del duca di Guisa nella Francia di fine Cinquecento, capace di costringere re Enrico III a fuggire da Parigi. Vittoria effimera, però: qualche anno dopo sarebbe arrivato Luigi XIV a rimettere le cose a posto e a consolidare la monarchia assoluta.

Ai tempi nostri le cose vanno più rapidamente: Boris Berezovsky fu determinante nell’ascesa di Putin, contribuendo alla sua nomina a primo ministro nel 1999 e alla creazione del partito “Unità”, che lo portò al Cremlino. Al contrario di vari altri oligarchi caduti da finestre aperte ha salvato la pelle dopo la rottura con Putin ma è in esilio da 25 anni a Londra. Fethullah Gülen fu ugualmente essenziale nel portare al potere Erdogan in Turchia, salvo diventare il nemico n. 1 di quest’ultimo dopo il 2013 e fino alla morte nel 2024.

Musk ha dalla sua l’età e i miliardi ma il potere politico, in particolare nei regimi autoritari o sulla strada per diventarlo, sono nemici pericolosi per chiunque.



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