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Csrd: più costi, ma più credito per le imprese trasparenti


Con l’entrata in vigore della nuova Csrd (Corporate sustainability reporting directive), molte imprese europee si trovano davanti a una svolta strutturale che cambia il modo in cui valutano e comunicano le proprie performance. Dal 2024, le grandi aziende, già soggette alla precedente direttiva sulla dichiarazione non finanziaria (Nfrd), sono infatti obbligate a redigere un bilancio di sostenibilità secondo i nuovi standard europei. Per le altre categorie, tra cui le grandi imprese non quotate e le Pmi quotate, gli obblighi scatteranno tra il 2026 e il 2028 secondo una logica progressiva. Con un impatto atteso su oltre 50mila aziende nei prossimi anni, la Csrd rappresenta la prima grande infrastruttura regolatoria che mette ambiente, società e governance al centro della trasparenza d’impresa.

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Il principio su cui si fonda è quello della doppia materialità: ogni impresa deve comunicare sia come le proprie attività influenzano l’ambiente e la società (materialità d’impatto), sia in che modo le variabili Esg – dal cambiamento climatico alla pressione regolatoria – possono incidere sui risultati economici, sulla strategia e sulla resilienza aziendale (materialità finanziaria). La rendicontazione, per la prima volta, deve essere dettagliata, digitalizzata, certificata da un revisore indipendente e pienamente integrata nella governance.

Non è un passaggio formale. I primi bilanci pubblicati nel 2024 – analizzati da EY, Deloitte, Horváth e altre società di consulenza – mostrano uno sforzo significativo per adattare la reportistica aziendale ai nuovi standard di sostenibilità Esrs, che definiscono come le aziende devono comunicare le proprie performance ambientali, sociali e di governance (Esg) nell’Ue. Standard che sono stati sviluppati dall’Efrag (European financial reporting advisory group) su incarico della Commissione europea e che costituiscono il quadro tecnico per adempiere alla Csrd.

I documenti, spesso superiori alle 100 pagine, includono dati non solo ambientali ma anche sociali, di filiera e relativi alle politiche di parità. Le aziende più esposte – come quelle dei settori energetico, finanziario e manifatturiero – hanno dovuto dotarsi di strumenti digitali avanzati, aggiornare i propri sistemi di raccolta dati e avviare percorsi di audit esterno.

Ma è soprattutto sul piano dei costi che la transizione imposta dalla Csrd si sta facendo sentire. Secondo lo studio più autorevole disponibile a oggi, curato da Euronext Corporate Services, l’impatto economico della compliance è tutt’altro che trascurabile. Per una grande azienda già soggetta alla Nfrd, il costo iniziale per adeguarsi alla nuova direttiva è stimato in 287mila euro, cui si aggiungono 320mila euro di costi ricorrenti annuali. Al netto delle proroghe, per le aziende non quotate con meno di 500 dipendenti, le cifre sono inferiori ma non irrilevanti: circa 36mila euro di spese una tantum e 40mila euro l’anno per la gestione ordinaria. Costi che crescono sensibilmente in presenza di catene del valore complesse, presenza multi-paese o piani industriali articolati.

Grafico a cura di Silvano Di Meo 

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A queste voci si aggiungono i costi “invisibili”: formazione interna, aggiornamento dei sistemi IT, consulenze, ridefinizione dei processi di risk management, coinvolgimento degli stakeholder. In molti casi, le imprese si trovano a dover costruire da zero un impianto di governance Esg, con competenze trasversali tra area sostenibilità, finance, legale e operations. E mentre i grandi gruppi possono contare su strutture dedicate, il rischio è che le Pmi, pur indirettamente coinvolte, si trovino in difficoltà nell’adeguarsi.

È anche per questo che nel 2025 la Commissione europea ha approvato il cosiddetto pacchetto “Omnibus”, che ha introdotto un alleggerimento dell’impianto normativo: posticipo degli obblighi per le imprese non ancora soggette, semplificazione degli standard Esrs, aumento delle soglie dimensionali (oltre 1.000 dipendenti) per limitare l’onere burocratico. Ma la misura, se da un lato ha risposto alle richieste di flessibilità, dall’altro ha aperto una zona grigia. In particolare, si sta creando una asimmetria informativa: le grandi imprese sono tenute a rendicontare anche sulle controparti della filiera, ma queste ultime – in molti casi Pmi – non sono più obbligate a fornire dati. Il risultato è un cortocircuito operativo che rischia di compromettere la qualità delle informazioni riportate.

Al di là delle complessità e dei costi, emergono anche benefici concreti. La trasparenza sui temi Esg sta diventando una variabile chiave per l’accesso a finanziamenti sostenibili, sia tramite strumenti bancari agevolati sia attraverso emissioni di green bond o prestiti subordinati a obiettivi ambientali. Alcuni gruppi hanno già ottenuto condizioni di credito più favorevoli grazie alla qualità dei dati forniti secondo gli standard Csrd. Anche la relazione con investitori istituzionali, assicurazioni e fondi pensione si sta ridefinendo alla luce della nuova disclosure. In un contesto in cui sostenibilità fa sempre più rima con accesso al capitale, la Csrd si sta trasformando da obbligo normativo a leva competitiva. La conferma arriva dal report “State of Green Finance” dell’Ocse, secondo il quale oltre il 70% degli investitori istituzionali europei oggi tiene conto delle metriche Esg nei processi decisionali.



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